
Come sta cambiando la globalizzazione? Come si sta ridisegnando la mappa degli scambi internazionali? A queste e altre domande prova a rispondere l’ultimo volume della Rivista di Politica Economica, intitolato “La distanza e l’incertezza. Percorsi della manifattura globale negli anni degli shock sistemici”.
Sfogliando le quasi 250 pagine che compongono la pubblicazione, balzano agli occhi tutti i principali temi economici di attualità: la questione del rincaro delle materie prime, l’aumento dei costi energetici e il problema della dipendenza strategica, la transizione ecologica, le politiche di reshoring e la regionalizzazione degli scambi mondiali, il ruolo della rivoluzione digitale nel commercio internazionale e così via. In più punti ricorre il riferimento al tramonto di una fase storica “in cui i paesi industrializzati avevano trasformato il problema produttivo in un problema commerciale, ovvero nel problema di rendere disponibili i beni di volta in volta domandanti semplicemente comprandoli in qualche angolo del mondo”.
È veramente così? “Parlare di tramonto della globalizzazione è prematuro – risponde Stefano Manzocchi (nella foto in alto), prorettore per la ricerca all’Università Luiss Guido Carli di Roma e direttore della Rivista di Politica Economica – perché gli scambi commerciali sono ancora forti. Oggi assistiamo piuttosto a una fase di contrazione, ma non è un fenomeno inedito perché lo abbiamo già osservato altre volte nella storia. La differenza rispetto al passato è che adesso vi è anche un ripensamento qualitativo, avviatosi già con la crisi finanziaria del 2007 che ha messo in pausa la crescita impetuosa degli anni Novanta. Per questo motivo – spiega Manzocchi – preferisco parlare di una riconfigurazione della globalizzazione, nella quale la distanza geografica e l’incertezza degli approvvigionamenti – che siano beni intermedi o materie prime non importa – tornano ad essere temi di rilievo”.
In questo scenario che ruolo può giocare l’industria manifatturiera europea?
L’Europa è ancora forte ma negli ultimi decenni ha mancato di attrezzarsi per agganciare i driver emergenti che avrebbero organizzato la produzione e gli scambi mondiali negli anni a venire. Faccio due esempi: il digitale e la sostenibilità.
Sul primo l’Europa è in ritardo, le principali aziende che negli ultimi vent’anni hanno occupato il mercato sono nordamericane oppure asiatiche. Per questo motivo alcune misure europee di politica industriale che pure possono sembrare interessanti, come ad esempio il Chips Act per creare un’industria europea dei semiconduttori, sembrano un po’ fuori tempo massimo. Abbiamo accumulato un ritardo in questo settore che non sarà facilissimo colmare. La pandemia, con il repentino spostamento sul digitale di milioni di lavoratori, ha dimostrato che così come sarebbe servita un’industria europea capace di produrre mascherine o respiratori, altrettanto sarebbe servita un’industria dei chip.
Nell’ambito della sostenibilità l’Europa ha fatto mosse importanti come il Green Deal e la spinta verso la decarbonizzazione, ma da un punto di vista industriale non sempre si è fatta trovare pronta, come dimostra il fatto di avere consegnato il quasi monopolio della costruzione di pannelli solari a produttori asiatici. E questa miopia non ha riguardato solo alcuni prodotti finiti, ma anche i beni intermedi e, più in generale, la capacità di disegnare un’industria europea che non fosse dipendente – come è oggi – dalla disponibilità delle terre rare. Che stanno altrove: in Asia, Russia e Africa.
Il Green Deal è dunque rinviato o annullato?
È un tema molto interessante perché con lo scoppio della guerra ci siamo trovati in una situazione imprevista, che ha richiesto misure di emergenza basate anche sulle fonti fossili, forse un po’ antiquate ma necessarie.
Sulla transizione ecologica ci sono stati grandi proclami ma, a mio avviso, si è ragionato meno sulle modalità per farla, senza la consapevolezza che tutte le grandi transizioni tecnologiche hanno sempre comportato costi sociali ed economici. Per esempio, immaginare il passaggio all’auto elettrica senza preoccuparsi della disponibilità di alcune componenti come le batterie, che oggi sono merce rara, significa non aver fatto i conti con la realtà. Detto questo, la transizione ecologica resta la risposta migliore che si può dare su vari piani alla crisi energetica in corso: il ricorso alle fonti rinnovabili consentirebbe di uscire dalla condizione di “ricatto” imposta dai paesi produttori e nello stesso tempo di raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici.
Alla luce di ciò credo che il Green Deal verrà rimodulato tenendo conto delle preoccupazioni economiche e sociali presenti in Europa, ma non verrà abbandonato. Le persone continueranno a spostarsi e non possiamo pensare di attuare la transizione ecologica importando macchinine elettriche dalla Cina, servirà un’industria europea capace di fornire ciò che serve. In altre parole, un mondo meno globalizzato e più regionalizzato non potrà prescindere da una capacità produttiva europea.
Nel volume si parla molto anche di reshoring. Quali sono le caratteristiche del fenomeno?
Il reshoring suscita interesse. Di fatto, significa reimportare pezzi di filiere produttive che erano stati allocati all’estero seguendo la logica della commercializzazione dell’industria a livello globale. Questa scelta risponde a una serie di esigenze che in parte abbiamo già delineato, quali il proteggersi dall’incertezza degli approvvigionamenti e il ridurre la distanza geografica dei fornitori, e a volte anche dei mercati. Spesso è stata anche la risposta che ha consentito di trovare il punto di equilibrio fra il costo del lavoro e la disponibilità di competenze professionali.
Complessivamente il fenomeno c’è stato, anche se in misura meno imponente rispetto a come lo hanno descritto i media e spesso ha avuto carattere più continentale che nazionale. Le produzioni non sono rientrate sempre nel paese di origine ma in Europa, e non nei paesi dell’Est come ci si sarebbe potuto aspettare, bensì anche nelle aree meridionali come la penisola iberica.
La guerra in Ucraina ha introdotto un ulteriore elemento di instabilità al quadro generale. Cosa si devono aspettare le imprese dopo l’estate?
Lo scenario è complesso, con forze che spingono in direzione opposta. Da un lato le imprese beneficiano tuttora di ordini molto importanti; si sta liberando la domanda che era stata compressa a causa del Covid-19. Ciò riguarda in particolare i servizi, ovvero turismo, ristorazione, viaggi, trasporti. Settori che tuttavia hanno bisogno del manifatturiero per esistere e qui pesano i vincoli sull’offerta perché mancano le materie prime e mancano i lavoratori specializzati.
Dall’altro lato banche centrali e governi dovranno gestire questa fase complicata di inflazione, che si accompagna a un rallentamento della crescita a livello mondiale. Sarà inevitabile un aumento del costo del denaro e questo avrà un impatto su consumi, produzione e investimenti.
È soprattutto quest’ultimo aspetto che mi preoccupa perché è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è in piedi; una spinta la danno gli investimenti pubblici, ma senza quelli privati – che auspicabilmente dovrebbero essere un multiplo – i singoli paesi e l’Europa perderanno slancio. E sono investimenti che invece servirebbero a far cambiare pelle ai settori produttivi europei.
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