Ci sono domande a cui il marketing, da solo, non può rispondere. Ci sono domande alle quali la funzione delle risorse umane (Hr), da sola, non può rispondere. Per fortuna loro e nostra, a quelle domande marketing ed Hr possono rispondere insieme:
- Perché una persona dovrebbe lavorare nella tua azienda?
- Qual è la proposta di valore per i dipendenti?
- Cosa raccontiamo all’esterno per intercettare nuovi talenti?
- Chi sono le employee personas?
- Quali sono gli aspetti su cui l’azienda deve migliorare per aumentare la soddisfazione dei dipendenti?
La pandemia ha accelerato un percorso già in atto da anni e gli effetti sono evidenti a tutti: great resignation e quite quitting. Ma cosa c’è alla base dell’iceberg di cui vediamo solo questa punta? Possiamo riassumere tutto con un unico, grande concetto: il senso del lavoro.
Sempre più persone cercano nel lavoro un senso che vada al di là del bisogno di sussistenza. Per questo oggi i classici meccanismi retributivi falliscono miseramente: se pensiamo di incentivare i nostri colleghi attraverso bonus una tantum, non solo non avremo alcun risultato ma, anzi, rischiamo un pericoloso effetto boomerang. Non possiamo motivare le persone se prima non ci sforziamo di capire cosa davvero ci motiva. Possiamo individuare cinque macro fattori che concorrono alla soddisfazione che ciascuno di noi vive nell’esperienza di lavoro:
- Retribuzione economica, che comprende parte fissa, variabile, premi e incentivi.
- Flessibilità: oraria, di luogo, di obiettivi.
- Crescita personale e professionale.
- Senso di appartenenza al proprio team e, in generale, alla comunità aziendale.
- Condivisione di scopo e valori: sentire che il proprio impegno, le proprie energie, sono messe a valore per un bene più alto rispetto alla redditività aziendale.
Ciascuno di noi percepisce in modo diverso l’importanza di ciascun fattore: per alcuni la parte economica concorre in gran parte alla soddisfazione complessiva, per altri meno e così via. Questa percezione di importanza, inoltre, non è costante nel tempo ma muta. Faccio un esempio personale, per quello che riguarda il mio percorso professionale, iniziato dopo la laurea nel 2005.
Ero consapevole di non avere esperienza lavorativa, pertanto ero disposto a tutto per poter crescere a livello professionale: accettai uno stage non retribuito e ne fui contento. Lo rifarei altre mille volte. Poi decisi di sposarmi, prendere casa e fare debiti: la retribuzione economica ha iniziato a giocare un ruolo decisivo.
Nel 2010 sono diventato per la prima volta papà ma potevo stare poco con mio figlio, non riuscivo a portarlo e ad andarlo a prendere all’asilo nido: il tema della flessibilità è diventato per me un problema molto percepito e pesante. Nel 2013 iniziai, anche per questo, a fare il freelance. Nel 2018 lavorare da solo iniziò a starmi stretto e sognai di costruire un team di cui sentirmi parte. Oggi, infine, sono molto concentrato a mettere sempre più a fuoco lo scopo e i valori che danno senso e direzione al mio lavoro nelle mie società.
Ecco, allora, un primo “take away” di questa dissertazione tra marketing e Hr: tutto parte dalle motivazioni. Il marketing, da decenni, si confronta sul tema dell’analisi delle motivazioni d’acquisto per creare esperienze, prodotti e servizi altamente attraenti e di valore. Da sempre Hr ha, tra i suoi focus, quello di far crescere e difendere la motivazione del personale. Marketing ed Hr, insieme, possono quindi lavorare a quattro mani per mappare le diverse motivazioni dei colleghi, misurarne la rilevanza e l’attuale soddisfazione. Ne nasceranno importanti riflessioni in merito alla capacità dell’azienda di mettersi in ascolto, di immaginare una employee experience mirata per ogni dipendente nelle diverse fasi di vita, di percepirsi come soggetto di senso per chi, quel senso, lo cerca e lo brama.
Ma perché dovremo farlo? Dobbiamo tutti puntare a essere società benefit? O forse per meritarci qualche stemma e premio da esibire in fase di recruiting? No, la risposta è ben più sostanziale: dobbiamo farlo perché le persone sono, qualunque sia il nostro business, la chiave del nostro successo di oggi e, soprattutto, di domani.
Lo dobbiamo fare perché ogni azienda può diventare la miglior versione di sé stessa nella misura in cui aiuta ciascun dipendente ad essere la miglior versione di sé stesso.
Allora il tema assume la forma di un’altra domanda chiave: come possiamo farlo? La risposta, che meriterebbe ben più di qualche riga, può essere sintetizzata con il concetto, assai ampio e variegato, di internal branding.
Da sempre, per il marketing, il brand ha rappresentato e rappresenta il nucleo di valore simbolico e affettivo che permea i prodotti e i servizi perché possano diventare oggetti di senso e di identità per chi li sceglie.
Abbiamo bisogno di brand forti, in questo caso non più rivolti a soggetti esterni (clienti in primis), quanto a soggetti interni: i collaboratori di oggi e di domani. Un brand capace di essere contenitore di senso, significati e valori e quindi nucleo dal quale estrarre tutte le grandi domande che dall’inizio di questo articolo cercano risposta. Siamo partiti proprio da lì:
- Perché una persona dovrebbe lavorare nella tua azienda?
- Qual è la proposta di valore per i dipendenti?
- Cosa raccontiamo all’esterno per intercettare nuovi talenti?
- Chi sono le employee personas?
- Quali sono gli aspetti su cui l’azienda deve migliorare per aumentare la soddisfazione dei dipendenti?
Come arrivare a definire quindi risposte chiare, condivise e solide? La ricetta sembra alquanto “old school”, perché consta di un sistema integrato e coerente di analisi qualitativa e quantitativa per un ascolto reale, strutturato e organizzato della voice of employee.
Non è questo il luogo per entrare nei tecnicismi di questo mestiere e di sicuro non ci sono strade facili, veloci e sicure per arrivare alla soluzione di un tema così complesso. Mi auguro, però, di aver stimolato intanto qualche domanda e aperto qualche spiraglio verso un nuovo modo di vedere e gestire il brand, attraverso un lavoro di squadra tra marketing ed Hr, che così tanto hanno in comune e così tanto hanno da fare, per il bene di tutti.
(l’autore è anche fondatore e socio amministratore di Build the Forest e Sognomatto Holding)
(Articolo pubblicato sul numero di luglio de “L’Imprenditore”)