Ora che il grande esercizio di democrazia per l’elezione del Parlamento europeo si è concluso, occorre interrogarsi sulle sfide di politica economica che l’Unione ha di fronte, e che sono molte e assai impegnative com’è noto.
Nei cinque anni trascorsi dalle elezioni europee del 2019 il mondo è cambiato e il nostro continente è l’area nella quale le tensioni geopolitiche ed economiche si avvertono di più. Ancor più necessario, in una fase così, trovare qualche coordinata di riferimento cui ancorare gli indirizzi di politica industriale, specie dopo una campagna elettorale nella quale il gran rumore di fondo ha sovrastato i segnali programmatici. Che si faccia appello all’interesse geopolitico europeo, o alla coesione e sviluppo sociali, o a tutto ciò, può essere utile partire da alcuni elementi per delineare quello che possiamo chiamare un “Industrial Compact” per la nuova Commissione Ue.
Le elezioni appena concluse potrebbero alleviare una distorsione ottica che spesso affligge le classi dirigenti europee e che consiste in uno sguardo sfocato verso i punti di forza economica dell’Europa, mentre ci si focalizza in modo anche ideologico su aspetti che ne esasperano fragilità e rischi. Italia, Germania e Francia assieme costituiscono il principale esportatore al mondo, anche se naturalmente una quota dei loro scambi sono intra-europei. La ricchezza finanziaria in Europa è seconda solo a quella degli Stati Uniti, e così la spesa in ricerca e sviluppo, che si attesta attorno ai 450 miliardi di euro come per la Cina contro gli oltre 800 miliardi di spesa annuale degli Stati Uniti. Si tratta quindi di identificare bene il campo e le strategie, che non possono essere solo reattive, ma devono muovere da quegli elementi di forza che l’Europa possiede e costruire su di essi un progetto.
Il tema della transizione energetica è naturalmente al centro e la neutralità tecnologica va perseguita. Una regolamentazione disegnata non sugli obiettivi finali ma sugli strumenti intermedi per conseguirli (l’indicazione di un solo percorso tecnologico invece di una pluralità di opzioni) può causare più danni che vantaggi. In questo senso, le imprese hanno molto da contribuire in termini del “come” realizzare gli obiettivi che la politica si propone, sia rispetto alle modalità operative sia rispetto agli equilibri sociali da promuovere.
Sotto questo profilo, ad esempio, le prospettive della filiera automotive che è un punto di forza ben radicato del sistema industriale europeo, con decine di migliaia di aziende e centinaia di migliaia di lavorati coinvolti, rappresentano un caso paradigmatico. Quali benefici ambientali si potrebbero ancora ottenere in Europa da un rapido ricambio del parco-auto oggi esistente, con motori termici e carburanti più puliti rispetto a quelli oggi in circolazione? E quanto può ancora dare quella filiera in termini di ricerca e sviluppo di nuove soluzioni? Non poco, a sentire gli esperti. Puntare solo sull’auto elettrica, invece, significa oggi consegnarsi alle importazioni dalla Cina, che sono aumentate del 23% negli ultimi mesi.
Usare solo l’arma del protezionismo per un’area continentale che esporta molto non può essere la soluzione. Per l’Europa, “l’arma” economica da perfezionare è il Mercato Unico: solo imprese europee di dimensioni sufficienti possono investire in capitale innovativo e generare abbastanza utili per sostenere il passo di quelle americane o cinesi. Quest’arma, che aumenta l’efficienza produttiva, richiede però innovazioni economiche e politiche europee per distribuire i vantaggi tra paesi e categorie sociali. Si parla molto di re-shoring, di rientro in Europa delle produzioni dislocate in aree lontane. E i presupposti per una riconfigurazione delle filiere internazionali esistono, ma occorre un disegno di politica industriale al passo con i tempi.
La ridotta dinamica della produttività in Europa, anche rispetto agli Stati Uniti, è un freno per la crescita mondiale. Per le nazioni avanzate gli incrementi di efficienza richiedono investimenti in innovazione e nuove competenze, e anche incentivi ben disegnati rispetto agli obiettivi. La Transizione 5.0 è una delle leve principali per rendere efficiente la manifattura europea, con investimenti imponenti che l’Europa deve fare per il nuovo capitale materiale e immateriale necessario per innestare le innovazioni digitali nei processi produttivi e per proseguire nella transizione energetica. Sotto questo profilo, se non si potrà espandere il bilancio Ue e prevedere Eurobond per la Transizione 5.0, oltre che per le nuove spese per la difesa e l’autonomia strategica sotto il profilo dell’energia e delle materie prime, occorrerà che i bilanci pubblici nazionali sostengano gli investimenti privati.
Se un “Industrial Compact” deve far parte del messaggio e dell’azione della prossima Unione europea, su una politica industriale vicina all’impresa la nuova Commissione dovrebbe seriamente impegnarsi.