Il progresso economico che nel corso degli ultimi decenni ha coinvolto una parte via via maggiore della popolazione mondiale si è accompagnato a una crescita esponenziale dell’inquinamento ambientale e dello sfruttamento di risorse naturali non rinnovabili.
Nel corso degli ultimi sessant’anni, infatti, la concentrazione di gas serra nell’atmosfera – in primis di anidride carbonica (CO2) rilasciata dai combustibili fossili – è cresciuta ad un tasso medio annuo superiore di 100 volte rispetto agli incrementi naturali registrati nei millenni antecedenti la prima rivoluzione industriale, raggiungendo livelli mai registrati nel corso degli ultimi 800mila anni. Ciò ha determinato un progressivo innalzamento della temperatura media sulla superficie terrestre, fino ad oggi pari +0,9° rispetto ai livelli medi del periodo 1850–1900.
L’evidenza scientifica non lascia quindi dubbi sull’urgenza e l’ineluttabilità di un cambio di paradigma nel modello di sviluppo economico fin qui intrapreso nella direzione di una riduzione dell’impronta ecologica delle attività antropiche.
La manifattura è chiamata a dare un contributo fondamentale per una transizione dei nostri sistemi economici verso la neutralità ecologica, alla luce del suo ruolo di trasformatore di risorse naturali in beni destinati dalla produzione al consumo, e della sua capacità di generare innovazioni (non solo tecnologiche) che, attraverso i legami intersettoriali a monte e a valle del processo di trasformazione, si diffondono al resto dell’economia.
In particolare, la manifattura è chiamata da un lato (quello dell’offerta), a sviluppare capacità tecnologiche green – applicate alle costruzioni, ai trasporti, ai processi produttivi, alla generazione e alla distribuzione di energia, alla cattura e allo stoccaggio di gas serra e altri inquinanti, al trattamento dei rifiuti – e a ripensare la progettazione dei beni per facilitarne il loro successivo aggiornamento, disassemblaggio, e riuso; dall’altro (quello della domanda), ad utilizzare prodotti e tecnologie green nonché ad implementare modelli circolari di gestione delle risorse all’interno dei processi produttivi.
Tra i primi dieci sistemi manifatturieri con il minor impatto ambientale (misurato in tonnellate di CO2 equivalente per migliaia di dollari di valore aggiunto a prezzi correnti), ben nove sono europei, e tra questi troviamo le principali economie industriali del continente, ad eccezione della Spagna. Spiccano, in particolare, le posizioni di eccellenza della manifattura italiana e tedesca, rispettivamente al quarto e terzo posto della classifica mondiale (terzo e secondo se si esclude il dato “anomalo” della Svizzera, probabilmente spiegato dalla presenza significativa di headquarter di multinazionali industriali che registrano nel territorio elvetico il valore aggiunto prodotto pur non svolgendovi attività di trasformazione e, quindi, non emettendo CO2), subito dopo la manifattura danese.
Impronta carbonica diretta e indiretta dei sistemi manifatturieri nazionali
La sostenibilità del modello di produzione attuato in Italia si evince anche con riferimento all’approccio circolare nell’uso delle risorse: grazie alle attività di riciclo e recupero è stato infatti possibile re-immettere nel sistema economico l’83% circa dei rifiuti speciali prodotti in Italia (dato al 2016), contro l’81% registrato in Germania, il 71% in Francia e il 60% del Regno Unito.
In questo modo, tra i sistemi manifatturieri, quello italiano ha l’opportunità di giocare un ruolo di primo piano per la transizione ecologica. Sia perché il suo peso, come settima potenza industriale del pianeta, fa sì che le sue scelte d’investimento possano avere un effetto diretto positivo sull’ambiente, sia perché l’eccellente performance ambientale già oggi raggiunta ne fa un modello virtuoso che può essere seguito da altri paesi. Ciò non può che avvenire come parte integrante di una strategia europea che sappia trasformare l’ambizione di riaffermare il ruolo dell’Unione europea come leader globale nella protezione dell’ambiente (a partire dal contrasto ai cambiamenti climatici) in un’opportunità di rinascimento industriale, e porre così le basi per uno sviluppo che sia sostenibile anche economicamente.
È una sfida tutt’altro che facile da affrontare, che richiede innanzitutto un accordo internazionale con le altre principali potenze economiche globali per definire insieme le regole del gioco e, poi, un differente approccio nel modo di concepire la cooperazione in ambito economico tra gli stati membri della Ue, ovvero maggiormente orientata alla condivisione dei rischi (che in un processo di transizione verso un nuovo paradigma di sviluppo sono altissimi) e degli investimenti pubblici, che sono una componente fondamentale, insieme a quelli privati, per sostenere la transizione.
Come ricordato in un precedente saggio sulla Rivista di Politica Economica (Saraceno F., “Europa 2020: l’anno della svolta?”, RPE n. 2, 2020), lo scoppio della pandemia ha permesso un’accelerazione inattesa in questa direzione, rendendo evidente anche a Bruxelles – e soprattutto a Berlino – la necessità di una maggiore condivisione di risorse e di indirizzi politici per la gestione comune delle crisi, da quella sanitaria a quella ambientale.
Ma, anche se il 2020 si dimostrerà a posteriori come l’anno della svolta per la politica Ue, non possiamo dimenticarci dell’importanza dei nostri “compiti a casa”, che non risparmiano neanche le imprese, senza i quali i prossimi anni di grandi trasformazioni (e opportunità) rischiano di diventare un’occasione persa per il Paese.
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