
Donne e lavoro, un binomio che ancora non funziona, specie quando arriva una maternità. Analisi e ricerche abbondano, i dati si sprecano. Per brevità ne ricordiamo soltanto uno, allarmante: secondo i dati Eurostat del 2020, l’Italia è ultima nel continente per numero di donne lavoratrici con figli (57,3%), preceduta da Grecia (61,3%) e Spagna (66,2%). Per questo motivo nell’intervista a Elena Bonetti (nella foto in alto), ministra per le Pari opportunità e la famiglia, la prima domanda non può che essere una sola: c’è oggi la volontà politica di affrontare il problema? “C’è non soltanto la volontà politica, ma anche la concretezza di decisioni già messe in campo – risponde Bonetti –. Il governo ha dotato per la prima volta il nostro Paese di una Strategia nazionale per la parità di genere, che consta di cinque assi – lavoro, reddito, competenze, tempo e potere – e definisce per ciascuno gli obiettivi da raggiungere da qui fino al 2026. Una strategia che, attraverso l’Osservatorio per la parità di genere istituito presso questo ministero, costituirà anche la griglia di monitoraggio dell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza con riferimento alla missione 5 ‘Coesione e inclusione’”.
Partiamo dalle misure già approvate. Quali sono quelle per incoraggiare la creazione di imprese femminili?
Abbiamo istituito presso il ministero dello Sviluppo economico (Mise) un fondo innovativo da 400 milioni di euro, che sarà gestito di concerto con il nostro Dipartimento attraverso il Comitato Impresa Donna di prossima costituzione. Duecento milioni andranno a startup innovative femminili, gli altri 200 sosterranno la creazione di imprese sia come somme a fondo perduto, sia come strumento per attivare percorsi di formazione finalizzati all’obiettivo. Resta attivo, poi, lo strumento del credito agevolato alle Pmi femminili attraverso il Fondo centrale di Garanzia presso il Mise. Si tratta di misure che saranno operative già nei prossimi mesi.
A dicembre scorso è entrata in vigore la legge sulla parità retributiva, con la quale viene istituita per le aziende la “certificazione della parità di genere”. Di cosa si tratta?
È uno dei progetti proposti alla Commissione europea e che è stato finanziato nell’ambito del Pnrr. Non comporterà alcun onere per le imprese, le quali anzi beneficeranno di uno sgravio contributivo. Il fondo per la premialità sarà finanziato in modo strutturale per 50 milioni di euro all’anno.
E come saranno assegnate le risorse?
Il meccanismo di attribuzione è in via di definizione. Per come lo abbiamo immaginato non sarà un beneficio a bando ma direttamente associato alla certificazione. Attualmente è in corso la gara per commissionare la piattaforma tecnica che gestirà i dati e a seguire ci occuperemo delle procedure di accredito per le agenzie che erogheranno la certificazione. Nelle nostre intenzioni quest’ultima deve diventare per le imprese uno strumento di progettazione e programmazione delle attività per assicurare il bilanciamento di genere e promuovere la diversità in azienda. Inoltre, è nostra intenzione estendere questo strumento a tutto il sistema degli appalti del nostro Paese.
Per quanto riguarda le posizioni di potere e il tema della leadership in generale, come è noto la legge Golfo Mosca ha consentito all’Italia di aumentare la presenza femminile nei Cda delle aziende quotate e nelle società a controllo pubblico. I ruoli apicali, tuttavia, restano ancora occupati in prevalenza da uomini. Come modificare la tendenza?
Servono azioni integrate su più fronti ed è quello che si propone di fare la Strategia nazionale per la parità di genere. La certificazione appena introdotta, per esempio, a nostro avviso avrà l’effetto di favorire questo processo, andando a premiare quelle aziende che strutturano il reclutamento di nuovi profili così come l’avanzamento di carriera valorizzando i talenti femminili a tutti i livelli.
Insieme a questo, in una società che richiede competenze sempre più elevate per i ruoli di responsabilità, va rafforzata la formazione nelle materie Stem, nelle quali il nostro Paese sconta un gap di partecipazione femminile. Ciò consentirà sia di accrescere la presenza delle donne nei ruoli apicali, sia di riqualificare le competenze nei percorsi professionali già avviati.
Stiamo inoltre studiando uno strumento che è stato da poco approvato in Francia – e sono personalmente in contatto con la mia omologa (Èlisabeth Moreno, ministra delegata per la parità tra donne e uomini, la diversità e le pari opportunità, ndr) – che fissa obiettivi specifici di incremento della presenza femminile e di loro promozione in tutti i livelli dirigenziali. Anche in questo caso si potrebbe usare un’ulteriore premialità come leva.
La misura potrebbe riguardare anche le imprese più piccole?
Credo che dobbiamo mettere in campo innanzitutto strumenti versatili, che non assumano un modello unico di impresa perché il contesto italiano è composto da realtà molto diverse per dimensione, settore e collocazione geografica. Accanto alla “certificazione della parità di genere”, per le Pmi occorrono sostegni economici che favoriscano l’assunzione di donne. Ad esempio, quando una dipendente va in maternità, all’impresa spetta il pagamento di una parte dell’indennità e il versamento dei contributi, oltre a rendersi necessario un contratto di sostituzione: mentre in una grande impresa questo carico viene assorbito dalla dimensione, in una Pmi può risultare piuttosto oneroso. Ecco perché nella riforma del Family Act prevediamo di eliminare questi costi per le imprese e di incentivare gli strumenti di welfare. Fra le misure da realizzare, ad esempio, vi è quella di estendere la decontribuzione per i contratti di sostituzione maternità oggi in vigore per le piccole imprese anche alle medie.
Con che tempi?
Il Family Act è in discussione al Senato. Una volta approvato, una simile misura potrebbe essere prevista nella prossima legge di bilancio. È chiaro che si tratta di un costo, ma vale l’investimento. Occorre aumentare il lavoro femminile e aumentare la natalità.
A tale proposito ricordiamo che da quest’anno è in vigore l’assegno unico per i figli, da lei fortemente voluto. Per conciliare gli impegni di cura con il lavoro occorrerebbe, però, potenziare l’offerta dei servizi di assistenza all’infanzia. Quali obiettivi si pone?
Mi lasci prima dire che l’assegno unico è una misura importante perché finalmente riconosce un sostegno economico alla genitorialità a tutti, e non solo a chi ha un contratto da dipendente. Prevede inoltre una maggiorazione nel caso in famiglia ci sia un secondo percettore di reddito proprio per scoraggiare l’uscita delle donne dal mondo del lavoro subito dopo la maternità.
Per quanto riguarda i servizi di educazione per l’infanzia, stiamo lavorando per attuare – se mi consente il termine – una “rivoluzione”, puntando a raggiungere i livelli della Francia nell’offerta di posti per la fascia da zero a tre anni. Oggi siamo al 27% della copertura rispetto alla domanda, puntiamo al 50% entro il 2026 con una soglia minima del 33% in tutte le regioni.
Un obiettivo ambizioso, che implica anche un aumento della spesa corrente per il personale. C’è disponibilità su questo punto?
Nei 4,6 miliardi di euro previsti dal Pnrr per investimenti negli asili nido una parte è destinata alla copertura della spesa corrente. Nella legge di bilancio abbiamo introdotto i Livelli essenziali di prestazione, finanziandoli, per garantire ai Comuni le risorse necessarie a erogare i servizi.
Nell’ottica di una collaborazione fra pubblico e privato, invece, a breve avremo un bando da 50 milioni di euro per sostenere quelle imprese che attraverso il welfare promuovono servizi educativi favorendo così l’armonizzazione fra vita familiare e lavorativa.
(Intervista pubblicata sul numero di febbraio dell’Imprenditore)