Il lungo viaggio attraverso cinque generazioni ha portato tanti riconoscimenti e, fisiologicamente, anche il dover vivere qualche momento più complicato e di discontinuità alla Rubelli – 37 milioni di euro di fatturato nel 2023 a fronte di 160 dipendenti –, ma quello che non è mai venuto meno nel corso di tutti questi anni è l’indubbia, raffinata qualità dei tessuti offerti dalla storica Pmi veneziana ad una clientela abituata a spaziare a piacimento nel bello. Dal colore rosso con cui i primi esponenti della famiglia tinteggiavano le vele delle galee della repubblica Serenissima, passando per il 1889, quando il trisnonno degli attuali vertici aziendali decise di acquisire una tessitura sempre a Venezia, la traiettoria imprenditoriale ha preso sempre più i contorni di un progetto di successo, fino a giungere ai giorni nostri forte di un know how d’eccellenza ampiamente riconosciuto sia in Italia che oltre confine.
“Nei 300 anni in cui la nostra famiglia si è occupata a vario titolo di tessuti siamo stati capaci di costruire, poco alla volta, quella sorta di multinazionale tascabile che Rubelli è diventata ora – spiega Andrea Favaretto Rubelli (nella foto in alto), amministratore delegato dell’azienda veneta –. L’idea di rifondarla, venuta a mio padre a metà anni ‘50 del secolo scorso, ha dato lo stimolo necessario per far sì che la successiva entrata in campo di noi figli potesse avere un futuro portatore di soddisfazioni”.
Fino agli anni ‘80 impegnata quasi esclusivamente nel settore residenziale, a seguire Rubelli ha deciso di lanciarsi anche nell’hospitality, adesso diventato di fatto il core business della Pmi veneziana. “Nell’immediato post Covid-19 abbiamo assistito ad una fiammata delle commesse per case residenziali, ma poi nel 2022 è risalito prepotentemente il livello delle richieste provenienti dal mondo alberghiero, come anche da quello dalle navi da crociera, dall’hospitality d’alto profilo e dai negozi del lusso”.
Al crescere della domanda, la realtà tessile veneta aveva comunque già risposto per tempo, spostando a Como, “nel distretto serico più competitivo e creativo al mondo”, come sottolinea Andrea Favaretto Rubelli, sia la produzione per il settore moda che per l’arredo. “Lì siamo circondati da aziende di grande qualità e con i nostri telai riusciamo ad essere tessitori mentre continuiamo a mantenere, da azienda per certi versi atipica, pure il ruolo di editori tessili. È insomma un impegno piuttosto variegato visto che, per fare un esempio, la qualità dei tessuti impiegati per arredare una cabina di una nave da crociera non può ovviamente essere la stessa di quella necessaria per soddisfare le richieste di uno sceicco per la propria villa”.
Considerato il grande richiamo internazionale generato da questo tipo di made in Italy di estremo pregio, Rubelli può vantare una percentuale export veramente consistente. “Al momento siamo intorno all’80% e riusciamo a spaziare in tutti e cinque i continenti – conferma l’ad dell’azienda con quartier generale nella vicina Marghera, che a Venezia ha mantenuto la Fondazione Rubelli oltre ad un apprezzatissimo showroom –. In particolare, nel mondo degli hotel di altissimo livello, i nostri tessuti sono presenti ovviamente in Europa, ma pure negli Stati Uniti e in Medio Oriente, mercato molto importante per le fortune del brand che guidiamo. Più ridotte sono invece le interazioni con l’Estremo Oriente, mentre in Cina proseguiamo a fornire soprattutto i negozi del lusso”.
Per quanto riguarda invece quella sostenibilità ambientale inseguita un po’ da tutti negli ultimi tempi, l’approccio di Rubelli all’argomento è estremamente franco, senza troppi giri di parole. “Dobbiamo fare ancora molto e credo che nel tessile l’obiettivo impatto zero sia lontano decenni. Sono stati fatti passi importanti, non lo nego, ma le regole per adesso sono parecchio blande e nessuno al momento conosce il codice d’accesso alla strada della sostenibilità. In sostanza navighiamo nella nebbia verso una destinazione apparentemente nota, ma che non sappiamo dove sia. Nel frattempo noi, tra le altre cose, ricicliamo gli scarti dei filati, sperimentiamo tinture naturali compreso un nailon che non viene dal petrolio ma da semi di ricino che, per dare frutti, hanno bisogno di poca acqua. Sono sforzi che, in ogni caso, serviranno quando saremo capaci di misurare con precisione il grado di sostenibilità raggiunto dalle varie realtà industriali”.
Un settore, quello tessile, in cui sono rimaste attive solo imprese con un Dna testato da quegli eventi che, nei vent’anni precedenti alla fine del secondo millennio, hanno costretto invece altri a chiudere i battenti. “In quel periodo, purtroppo, i numeri sono stati impietosi. Chi è riuscito a superare certe sfide lo ha fatto mettendo sul piatto della bilancia la grande qualità e creatività tipiche delle Pmi italiane. Alla fine sono rimaste in piedi solo le aziende sane”. E per mettere sotto lo stesso tetto a confrontarsi tutti i più importanti player europei del settore moda, Rubelli è parte fondante del Venice Sustainable Fashion Forum. “Quest’anno l’appuntamento è fissato per ottobre, quando andrà in scena la terza edizione di un evento a cui teniamo veramente molto in ottica sostenibilità”.
Infine, la storica casa veneziana è impegnata nel dare sostanza all’idea di riuscire a superare i limiti dei classici tessitori, andando, con l’aiuto un’innovazione spinta, verso prodotti che ancora non esistono sul mercato. “Progetti tecnologici che sarebbero stati considerati folli non più di cinque anni fa”, conclude Andrea Favaretto Rubelli.