Negli ultimi tempi si è tornato a parlare molto di demografia, ma le parole che vengono adottate su quotidiani e notiziari relativamente alla condizione italiana di bassa natalità e progressivo invecchiamento della popolazione – “trappola demografica”, “emergenza” – non aiutano a comprendere la complessità del problema e soprattutto a porlo nella giusta prospettiva. Ne è convinto Stefano Manzocchi (nella foto in alto), prorettore per la ricerca all’Università Luiss Guido Carli di Roma e direttore della Rivista di Politica Economica, il quale ha voluto dedicare a questo argomento il secondo numero del 2021 della pubblicazione proprio con l’obiettivo di “ricollocare la questione demografica in una traiettoria di lungo periodo”.
“Le radici del problema non nascono né oggi, né durante gli anni precedenti alla pandemia – spiega il docente – ma sono consolidate nell’economia e nella società italiane e riguardano la storia degli ultimi decenni. Nella prima parte del volume affrontiamo la questione giovanile e quella femminile, mentre nella seconda approfondiamo aspetti che il più delle volte vengono soltanto accennati e mai analizzati, a partire per esempio dalla cosiddetta silver economy. Quando si parla di demografia, inoltre, si chiama sempre in causa la questione delle pensioni. Ecco, volutamente l’abbiamo lasciata da parte per dare spazio ad altre sfaccettature”.
Quali problemi rischia di avere il nostro Paese se non affronta la questione demografica?
Con il progressivo invecchiamento della popolazione il primo problema è quello della sostenibilità del sistema sanitario pubblico. Un tema che la pandemia ha messo in luce negli ultimi due anni, ma che è intrinsecamente collegato alla questione demografica. Gli anziani si confrontano con il sistema sanitario da almeno tre punti di vista: come pazienti, come contribuenti e come elettori. In particolare, sotto quest’ultimo aspetto, va evidenziato che gli anziani votano in proporzione più dei giovani e sono giocoforza più interessati alla spesa sanitaria, anche con una certa riluttanza per le riforme del sistema. Prevediamo, quindi, un aumento della spesa ma non un’esplosione della stessa, grazie alla maggiore attenzione che oggi si presta alla salute, intesa sia come prevenzione delle malattie sia come cura dell’alimentazione, pratica di esercizio fisico e così via.
Quali le altre conseguenze?
Un altro aspetto rilevante, che spesso trascuriamo, è il fatto che gli anziani sono “agenti economici” importanti: risparmiano, consumano, investono. La quota di risorse mobilitate dalla popolazione anziana italiana si aggira intorno ai 200 miliardi di euro, una quota significativa e molto stabile, che meno risente delle fluttuazioni tipiche invece delle generazioni più giovani. Esiste, quindi, un’economia della terza età, la cosiddetta silver economy, che può offrire grandi opportunità alle imprese. Pensiamo ai prodotti e servizi per la cura della persona, l’alimentazione, la riabilitazione, così come alle soluzioni abitative specifiche per la terza età, magari provviste di impianti di domotica per facilitare la vita in casa. Senza dimenticare la sfera dei consumi culturali e ricreativi ritagliati sulle esigenze e i gusti di una popolazione più anziana.
Gli over 65 di oggi, però, sono i figli del baby boom. I loro figli e nipoti probabilmente non potranno contare su risorse economiche altrettanto cospicue, se addirittura per loro si parla di difficoltà nel ricevere una pensione. È così?
A mio avviso, il punto non è tanto la quantità di anziani, bensì la limitata capacità economica che hanno i giovani ed è l’allarme che lanciamo nella prima sezione della rivista. Essi permangono per lungo tempo in una condizione di non piena autonomia, in parte a causa della difficoltà a collocarsi nel mondo del lavoro – dovuta a sua volta alle carenze del mondo formativo –, in parte perché la società italiana si è costruita sulle famiglie intese come grandi ammortizzatori sociali. Ne deriva che i giovani italiani diventano autonomi intorno ai 30 anni, molto più tardi rispetto a quanto accade in Nord Europa, e ciò fa sì che il loro contributo in termini di energia, intelligenza, competenze e produttività resti in parte inutilizzato.
È un problema grave sia per i giovani stessi, catturati in questo limbo familiare che li protegge e al contempo li vincola, sia per la società italiana, che viene privata di un significativo contributo di produttività e crescita che in altri paesi arriva proprio dai giovani.
In che misura le migrazioni possono alleviare la deriva demografica italiana?
In tutta Europa i migranti contribuiscono in maniera importante all’aumento del valore aggiunto industriale e ciò a prescindere dalle differenze salariali. Tuttavia non possiamo aspettarci che un flusso socialmente accettabile e gestibile possa sopperire al calo demografico che si sta producendo nella società italiana. I migranti sono importanti, ma da soli non possono risolvere la questione demografica.
Inoltre, si tratta di un tema politicamente sensibile e facile alle manipolazioni. Pertanto va affrontato con molta cautela sia dal punto di vista sociale che culturale.
Uno dei contributi della rivista spiega le ragioni, anche culturali, alla base della bassa fecondità italiana. Cosa ne pensa?
I motivi di questo fenomeno sono diversi. C’è quello economico, ovvero un basso tasso di occupazione femminile unito a un basso livello di salari e limitate possibilità di carriera, ma c’è anche quello culturale. Negli ultimi decenni, infatti, si è andata affermando una visione sociale che mette in contrapposizione maternità e carriera. Le donne, cioè, dichiarano che avere più di un figlio può costituire un impedimento per la realizzazione professionale. A questo scoglio nella percezione della propria autorealizzazione, per le donne si affianca il ritardo nel raggiungere una condizione di autonomia, cosa che pone problemi anche fisiologici all’aumento della natalità.
Cosa pensa della Strategia nazionale per la Parità di genere 2021/2026 promossa dal governo?
Innanzitutto ritengo che negli ultimi anni si siano fatti importanti passi avanti sotto vari punti di vista. Penso al Family Act, così come alle misure per i giovani per accedere ai finanziamenti per l’acquisto della prima casa. D’altra parte, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) mette a disposizione ulteriori risorse per i servizi di assistenza all’infanzia.
Si tratta di misure positive ma che devono essere collocate fuori dalla sfera dell’emergenza e diventare una priorità di lungo periodo. Non basta il family Act e non basterà il Pnrr. Servono strumenti coerenti con l’obiettivo di aumentare la natalità.
Francia e Germania hanno situazioni ben diverse dalla nostra. I tedeschi, pur avendo registrato in passato una bassa natalità, si sono ripresi. Cosa manca a noi italiani?
Lungimiranza e consapevolezza dell’importanza della demografia per la sostenibilità finanziaria, ma anche sociale e culturale, del proprio paese.
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