Il settore culturale ha acquisito un peso crescente nel nostro Paese, per valore economico espresso, per complessità e per la fitta rete di relazioni che intrattiene con altri settori. Lo si comprende bene leggendo il primo capitolo dell’ultimo numero della Rivista di Politica Economica, che prova a tracciarne il perimetro a partire dalla definizione dell’Unesco, analizzando gli approcci adottati da altri paesi avanzati e prendendo in esame i principali rapporti pubblicati negli ultimi anni.
Ma questo, appunto, è soltanto il primo di nove agili capitoli, che in poco più di 150 pagine vogliono offrire al lettore non specialistico una visione di insieme approfondendo altre sfaccettature, meno consuete nella letteratura economica. Il titolo del numero, in effetti, parla chiaro – “Il posto della cultura. Industria, benessere, sviluppo civile” – e il perché di questa scelta lo chiediamo a Stefano Manzocchi (nella foto in alto), prorettore alla ricerca all’Università Luiss Guido Carli e direttore della rivista. “Perché un volume sull’industria culturale? Beh, perché il significato e la presenza di questo settore vanno al di là della mera attività economica – spiega –. Siamo il paese della tradizione classica e rinascimentale, abbiamo il maggior numero di siti Unesco. Per sua natura l’identità nazionale dell’Italia poggia su una relazione forte con le opere culturali, tangibili e intangibili, che esprime. Inoltre, come si evince dall’analisi, si tratta di un settore che contribuisce allo sviluppo di altre dimensioni socio-economiche, quali la sensibilità ambientale, la conoscenza, il senso di cittadinanza. Parlare di questo settore, dunque, significa parlare del benessere e dello sviluppo civile dell’Italia”.
Uno dei capitoli propone di guardare ai servizi culturali come servizi essenziali, una terminologia che siamo abituati ad adoperare per altri servizi pubblici, quali la salute e l’istruzione. Perché invece è importante questo cambio di prospettiva?
Si tratta di un punto fondamentale, che però tendiamo a trascurare. Innanzitutto va detto che quantificare i livelli di servizi essenziali – già complicato per il settore sanitario – lo è ancora di più per il settore culturale. Alcune misurazioni sono state fatte, dalle quali per esempio si evince che nell’ultimo quarto di secolo la quota di cittadini italiani che vanno a visitare un museo almeno una volta all’anno è cresciuta, arrivando al 32% nel 2019. Sulle abitudini culturali influiscono poi molti fattori, come l’età, il livello di formazione scolastica e le dimensioni dei centri di residenza. Anche in altri paesi non si raggiunge la maggioranza della popolazione nella fruizione di questi servizi, ma sicuramente in virtù della nostra tradizione potremmo aspettarci qualche numero in più.
L’importanza dei servizi culturali, a ben vedere, è implicita nella nostra Costituzione; all’articolo 9 si legge infatti che ‘la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione’. Il capitolo cui fa riferimento mette in luce il nesso tra i servizi culturali e lo sviluppo di una cittadinanza piena, matura e consapevole ed esorta, come l’intero volume, a rendere cogente la loro erogazione per tutta la collettività.
Fra gli argomenti affrontati vi è quello delle professioni dell’industria culturale, che sono tante, spesso nuove, e non ancora chiaramente percepite dall’opinione pubblica o dai policy maker. Occorre fare ordine?
Il tema delle professioni è centrale. Si ripropone anche qui il problema del mismatch fra domanda e offerta di lavoro, che avevamo affrontato nel volume precedente dedicato alle competenze. Il settore culturale vive una trasformazione radicale, soprattutto in quei comparti dove la digitalizzazione è il driver di cambiamento. Sono nate nuove professioni, per esempio quelle legate al web, ma allo stesso tempo anche mestieri come il project manager o il fund raiser richiedono competenze specifiche per il settore culturale.
In generale, la digitalizzazione ha sicuramente portato una riduzione dei costi e l’editoria, per fare un esempio, è uno dei settori che ne ha beneficiato di più. Basti pensare che in Italia, fra il 2010 e il 2021, la produzione di nuovi titoli, a stampa ed e-book è aumentata dell’86% mentre le vendite sono cresciute del 7%. Sotto il profilo occupazionale la digitalizzazione ha poi introdotto maggiore flessibilità, con esiti talvolta non virtuosi.
Dovrebbe diminuire il precariato?
Ci dovrebbero essere politiche che consentano di distinguere la flessibilità dal precariato, che è uno svantaggio non solo per il lavoratore, ma anche per l’impresa, soprattutto per quelle realtà che fanno degli asset immateriali, quale è il capitale umano, la propria componente di base. D’altra parte, la flessibilità può facilitare chi dispone di competenze adeguate a spostarsi verso imprese più convenienti.
Il volume indaga gli effetti positivi della cultura sui comportamenti adottati dalla collettività, sottolineando il nesso tra capitale culturale e capitale sociale e come questo scambio contribuisca alla mobilità sociale. Allo stesso tempo, si legge nel capitolo finale, la condivisione fra questi due aspetti “avviene in ambienti ristretti e per lo più all’interno di classi sociali”. L’associazionismo può “rompere questa dinamica”. Il caso di Cultura Italiae è un esempio da cui trarre spunto?
Il volume presenta una ricognizione degli aspetti economici del settore. A nostro avviso però, oltre al lato dell’offerta, era importante indagare anche il lato della domanda per provare a capire come allargare la platea dei fruitori dell’industria culturale. Dall’alto possono arrivare politiche generali di indirizzo, mentre il modello associativo offre una risposta a questa necessità. L’associazionismo, infatti, connette realtà disperse ma contigue per interessi e aspirazioni, crea luoghi di incontro, favorisce un dialogo continuo fra chi si occupa di questi servizi, sia nel pubblico che nel privato, e le istituzioni. L’esperienza di Cultura Italiae è interessante perché nasce totalmente dal basso e cerca di fare rete nel mondo giovanile.
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