Lo studio fotografa il valore aggiunto prodotto dalla cultura e dalla creatività, analizzando in dettaglio i settori che ne sono influenzati e confermando, ancora una volta, come la cultura rappresenti uno dei motori dell’economia italiana.
Presidente Realacci, quali sono i principali risultati di questo lavoro?
Emergono dati sorprendenti per quantità. Parliamo, infatti, di 89,7 miliardi di euro di valore aggiunto generato da attività e imprese legate alla cultura in senso stretto. Se consideriamo anche le filiere che indirettamente vengono attivate e quella porzione di turismo stimolata dalla cultura, arriviamo a un valore aggiunto di 249, 7 miliardi di euro, circa il 17% del valore aggiunto nazionale.
A un primo blocco appartengono le industrie culturali propriamente dette (musica, libri, stampa, film, video, mass media, ndr), ma vi sono anche le cosiddette imprese creative-driven, ovvero industrie che incorporano la cultura come elemento competitivo. Ciò spiega perché in classifica, nelle posizioni di testa, troviamo luoghi a forte tradizione manifatturiera.
Qualche esempio?
Fra le regioni troviamo il Lazio, la Lombardia e il Piemonte. Fra le province, per incidenza di valore aggiunto, oltre a Milano, Roma e Torino vi sono Siena, Arezzo, Firenze e poi Modena, Ancona e Bologna. Tutti luoghi in cui possiamo affermare tranquillamente che “con la cultura si mangia”.
In generale, la ricerca misura quanto questa oggi sia parte determinante del nostro stare al mondo, del nostro essere italiani. E non è un caso che il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, lo abbia sottolineato nella propria relazione all’Assemblea.
Cosa va fatto per incrementare questo valore aggiunto?
Penso che la prima cosa da fare sia riconoscere questo fenomeno. Spesso noi italiani guardiamo il nostro Paese con un occhio distante, lasciando agli altri il compito di definire ciò che siamo.
Quando lo scorso anno il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon, scherzando alla Camera, disse che ogni volta che indossa una cravatta italiana ha l’impressione che la moglie gli voglia più bene, sintetizzò in una battuta un modo di percepire l’Italia che nel mondo è molto forte. Lo stesso accade quando l’architetto Daniel Libeskind racconta > che nei piccoli centri italiani è racchiuso il “dna dell’umanità”: il nostro modo di vivere e le cose belle e di qualità che produciamo sono un punto di riferimento per il mondo.
C’è un brano che amo molto di John K. Galbraith, nel quale l’economista spiega come l’Italia, “partita da un dopoguerra disastroso”, sia riuscita a rinascere pur avendo gap in numerosi ambiti. E alla fine la sua risposta è che il nostro Paese “ha incorporato nei suoi prodotti una componente essenziale di cultura e che città come Milano, Parma, Firenze, Siena, Venezia, Roma, Napoli e Palermo, pur avendo infrastrutture molto carenti, possono vantare nel loro standard di vita una maggiore quantità di bellezza”.
Partendo da questa premessa e dai risultati della ricerca, il seminario organizzato da Confindustria e Fondazione Symbola il 24 ottobre vuole sollecitare un ragionamento comune per rivitalizzare queste radici, mettere in rete i vari settori e rompere le barriere che vorrebbero la cultura come esclusivo appannaggio di alcuni.
Quali le criticità da rimuovere?
Ciascun settore ha le sue specificità, ma per tutti vale la stessa regola: lo spazio nostro è quello della qualità. In tal senso la storia del vino italiano è una grande metafora perché in origine si scelse di puntare sulle grandi quantità e sul basso prezzo. Fu un trauma a innescare il cambiamento – lo scandalo del vino adulterato con il metanolo nell’86 – benché il settore fosse in crisi già da prima e le nostre uve venissero esportate per “tagliare” vini stranieri. Dopo il crollo delle vendite, le istituzioni decisero di alzare l’asticella e gli imprenditori cambiarono rotta.
Oggi produciamo quantitativamente il 50% in meno rispetto agli anni Ottanta, ma il nostro vino vale di più. Abbiamo superato i francesi in volumi – non ancora in valore – e battuto tutti gli emergenti: Cile, California, Sudafrica. La qualità italiana è figlia della nostra storia, di come siamo fatti. E lo stesso si applica al turismo, dove non potremo mai competere con un turismo di massa.
Nel 2014 è stato introdotto l’Art bonus, un credito d’imposta del 65% per le erogazioni liberali che sostengono la cultura e lo spettacolo. Cosa ne pensa?
L’Art Bonus non va visto soltanto come un atto di bontà, ma come uno strumento per rafforzare il legame con il territorio. Trovo corretta, pertanto, l’idea del presidente Boccia di renderlo possibile anche per imprese molto piccole, che ad esempio donando 5mila euro vogliono contribuire al restauro di una chiesa, di una piccola collezione privata. L’Italia mi ricorda Anteo, il gigante della mitologia che restava invincibile fino a che toccava il suolo e dalla terra riprendeva forza. Anche l’Italia resta forte finché non si distacca dai suoi cromosomi.
Esaminando la distribuzione geografica delle industrie culturali, il Mezzogiorno è assente, nonostante non manchi di potenzialità, specie in termini di patrimonio storico-artistico e architettonico. Come spiega questo gap?
È debole perché il turismo e la manifattura legati alla cultura sono sottodimensionati pur essendoci la “materia prima”. Anzi, questo è uno dei casi in cui i fondamentali sono addirittura superiori, ma senza l’incrocio con una società e un’economia in movimento risultano insufficienti.
Quale ruolo giocano gli imprenditori attivi in settori diversi da quelli esaminati nel rapporto?
Anche chi lavora nel settore meccanico, per fare un esempio, è comunque influenzato dal design e mantiene l’attitudine a fare cose belle. Pensi alle giostre: i bambini di Pechino e di Shanghai giocano su giostre italiane, scelte perché pesano meno, consumano meno energia e sono più belle e avanzate di quelle tedesche. A farle sono imprenditori del Veneto e dell’Emilia Romagna. E potremmo dire lo stesso anche per il settore delle macchine agricole. Insomma, i fatti dimostrano che l’Italia è forte quando fa l’Italia ed è importante che le associazioni di imprese, a cominciare da Confindustria, aiutino gli imprenditori a capirlo.
“L’Italia, partita da un dopoguerra disastroso, è diventata una delle principali potenze economiche. Per spiegare questo miracolo, nessuno può citare la superiorità della scienza e della ingegneria italiana, né la qualità del management industriale, né tantomeno l’efficacia della gestione amministrativa e politica, né infine la disciplina e la collaboratività dei sindacati e delle organizzazioni industriali. La ragione vera è che l’Italia ha incorporato nei suoi prodotti una componente essenziale di cultura e che città come Milano, Parma, Firenze, Siena, Venezia, Roma, Napoli e Palermo, pur avendo infrastrutture molto carenti, possono vantare nel loro standard di vita una maggiore quantità di bellezza. Molto più che l’indice economico del Pil, nel futuro il livello estetico diventerà sempre più decisivo per indicare il progresso della società.”
John Kenneth Galbraith