
Il mondo globalizzato vede le aziende alla ricerca di nuove forme di differenziali competitivi innescabili dall’innovazione sul valore e da quella tecnologica. Il nuovo paradigma di business è ciò che il Project Management Institute definisce “The Project Economy”: lavorare per progetti con i project manager che assumono un ruolo strategico per promuovere innovazione, risultati e cambiamento. E l’innovazione del valore e quella tecnologica implicano nuovi modelli di leadership che guardino anche alla “complessità della diversity femminile”.

SONIA CARBONE
Il project management tuttavia è ancora un ambito in cui il gap di genere è molto ampio. Gli studi rilevano che, già solo considerando le categorie produttive ove la gestione progetto ha radici lontane nel tempo, il settore costruzioni è in mano al 93,5% di uomini e al 6,5% di donne, il settore consulenza al 71% di uomini e al 29% di donne, quello delle telecomunicazioni al 73,4% di uomini e al 26,6% di donne.
E non solo. Anche là dove i project manager (Pm) sono donne, spesso, per progetti strategici e/o di valore economico elevato sembrano più affidabili i colleghi uomini. Un vero circolo vizioso sostenuto dall’attaccamento a modelli culturali e mentali consolidati. Ma non si insegna che è proprio l’attaccamento a modelli culturali e mentali che finisce con il vanificare le strategie di business?
Oltre alle conoscenze di project management, al Pm è richiesta una efficacia personale che si concretizza se si possiedono “soft skills”. Prendiamo ad esempio la leadership: tutt’ora ciò che viene richiesto alla donna che intenda intraprendere la carriera di Pm è di abbandonare il proprio “stile relazionale” in favore di un modello di leadership “virile e fortemente competitivo”, tradizionalmente di impronta maschile e che in genere l’azienda predilige.
Ma lo stile relazionale declinato al femminile si avvale dell’empatia, che durante il ciclo di vita di un progetto aiuta a cogliere naturalmente segnali verbali e non verbali, a guardare quindi da una prospettiva “macro” le dinamiche che si instaurano tra gli stakeholder e ad essere perciò efficace nelle decisioni a beneficio non solo di tempi e costi.
Grazie al suo stile relazionale, e quindi all’approccio profondo e complesso ai problemi, una donna Pm evita, se possibile, il conflitto interpersonale dimostrando spiccata attitudine alla mediazione, risorsa indice al contempo di capacità negoziale.
Inoltre, l’empatia e la consapevolezza relazionale si traducono in ottime capacità comunicative che prediligono l’assertività per ottenere il consenso degli stakeholder senza diventare “abrasivi”, il loro coinvolgimento rispetto agli obiettivi, mantenendo sempre aperte tali linee di comunicazione.
In tal modo, la donna Pm affronta i problemi tempestivamente, promuovendo nel contempo la crescita del team in un’atmosfera non giudicante e con scopi condivisi, contribuendo pertanto all’ottimizzazione della gestione dei conflitti e dei rischi. Ma tradurre l’empatia in capacità funzionali non è forse un buon segno di leadership di qualità?
Un’ultima considerazione. Lo shock economico-sociale dovuto al Covid 19 ci pone di fronte ad un vero “sample of one”. Risultano imprescindibili non solo l’aggregazione di competenze economico-finanziarie, ma psicologico-sociali e manageriali. Ora più che mai c’è bisogno di un cambio di rotta rispetto al coinvolgimento delle donne per offrire valore attraverso l’economia del progetto. Se non ora quando?