“Cos’è il Manifesto di Assisi? Una raccolta di forze molto ampia che mette insieme tutti coloro che pensano che contrastare la crisi climatica sia una necessità da affrontare con coraggio e al tempo stesso un’occasione straordinaria per costruire una società più a misura d’uomo”. Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola, chiama a raccolta “quella parte di Italia che è pronta ad assumersi le proprie responsabilità e che è consapevole di come andare in questa direzione consenta al Paese di essere più forte”.
Venerdì prossimo, al Sacro Convento di Assisi, si ritroveranno dunque associazioni, istituzioni locali, esponenti del mondo accademico, della cultura e non solo.
Il Manifesto è stato promosso dalla Fondazione Symbola insieme con Padre Mauro Gambetti, Custode del Sacro Convento, Padre Enzo Fortunato, Direttore della rivista San Francesco, Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, Francesco Starace, Ad di Enel e Catia Bastioli, Ad di Novamont.
Alla presentazione del documento – che ha già superato le 1.800 adesioni fra cui quella di Paolo Gentiloni, Commissario Europeo agli Affari economici – parteciperanno anche il presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, il ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi e il presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Un appuntamento dall’alto valore simbolico con cui dare una risposta alla Generazione Greta che, fa notare Realacci, “ha ricevuto più carezze che risposte”.
Tra i primi firmatari c’è l’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni italiani. A livello locale c’è forse maggiore attenzione sul tema?
Sul territorio abbiamo esperienze eccellenti. In generale, oggi, in una parte ampia dell’economia e della società vi è una sensibilità maggiore di quanto non ve ne sia a livello politico. La politica è più indietro e spesso non percepisce quanto la tutela dell’ambiente rappresenti di fatto una nuova economia.
Dall’ultimo rapporto che, come Fondazione Symbola, realizziamo insieme a Unioncamere ormai da dieci anni, emerge che un po’ più di un terzo delle imprese manifatturiere ha fatto investimenti green negli ultimi cinque anni. Ebbene, queste sono le imprese che innovano di più, esportano di più e creano più posti di lavoro. Anche larga parte dell’opinione pubblica, come ha spiegato di recente Nando Pagnoncelli, ritiene che la sfera ambientale sia il modo per migliorare l’economia. Tutto questo nel dibattito politico non c’è e ciò costituisce un elemento di arretratezza.
In Europa invece la nuova Commissione crede nella svolta verde. Pochi giorni fa ha presentato il Fondo per una transizione equa, le cui risorse dovranno favorire anche la riconversione industriale di aree degradate. Quali le priorità in Italia?
Abbiamo certamente aree in sofferenza e sembra che parte di queste risorse potrà essere destinata anche all’Ilva di Taranto. Penso tuttavia che la cosa più importante non sia riconvertire le aree degradate, quanto costruire una nuova economia. Mi ha colpito molto il fatto la dichiarazione di Black Rock, il più grande fondo d’investimento, che voterà contro i Cda di cui è azionista se i loro manager non si impegneranno per affrontare la crisi climatica.
Segnali di questo tipo arrivano da più parti. Anche negli Stati Uniti, nonostante Trump abbia condotto una campagna elettorale sfruttando ideologicamente il tema del carbone, il consumo è calato, molte centrali hanno chiuso e nell’ottobre scorso tutti i nuovi impianti di produzione di energia elettrica erano da fonti rinnovabili. Costano meno e anche Stati a guida repubblicana hanno scelto questa direzione.
Tornando all’Italia?
Pochi sanno che siamo leader europei nell’economia circolare. Recuperiamo nella manifattura molta più materia prima degli altri paesi, più dei tedeschi. Questo è figlio del fatto che siamo poveri di materie prime e quindi abbiamo dovuto costruire filiere che fossero più efficienti. Penso agli “stracci” di Prato, le cartiere della Lucchesia, i rottami di Brescia. Questa capacità ci consente di risparmiare ogni anno 21 milioni di Tep e 58 milioni di tonnellate di Co2.
Inoltre, dal primo gennaio di quest’anno l’Italia vieta l’uso delle microplastiche nei cosmetici. Siamo il primo paese a farlo e da noi si produce oltre il 50% del make up del mondo. Carlo Cipolla diceva che la missione dell’Italia è “produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo”. Da noi l’economia è più forte quando ha più forti legami con le comunità e i territori. Pochi capiscono che ciò significa andare verso la tutela dell’ambiente.
Il pasticcio sulla plastic tax, introdotta e poi fortemente ridimensionata, dimostra infatti una certa difficoltà da parte dei rappresentanti politici ad applicare in concreto questa ricetta. Che cosa si dovrebbe fare?
Bisognerebbe avere una politica lungimirante. La plastic tax è giusta, tanti paesi europei l’hanno adottata. Il punto è che non può essere un balzello in più perché mancano le coperture finanziarie. Deve invece corrispondere a un’idea di economia e di società. Questo è mancato e manca tuttora perché nella politica italiana la sensibilità verso la lotta al cambiamento climatico è molto debole. Sono temi centrali, a mio avviso, anche per rafforzare la missione europea. Da come l’Europa affronterà questa sfida si capirà se è in grado di affrontare il futuro.
D’altra parte il sistema produttivo non può fare a meno di poli come quello di Taranto. Come conciliare economia e ambiente?
Abbiamo bisogno di acciaio, senza dubbio, ma abbiamo bisogno di produrlo con un impatto molto minore. Questo è uno dei tanti casi in cui paghiamo le scelte del passato. Quel tipo di economia ha lasciato le sue ferite, che vanno risolte, ma adesso occorre capire la rotta da prendere. L’Italia deve sapere trovare in se stessa gli strumenti e i talenti per essere protagonista della sfida ambientale. Abbiamo tutte le condizioni e tante nostre imprese sono avanti. Sa che fra i tanti settori in cui siamo leader nel mondo c’è anche quello delle giostre? E sa perché vincono?
Me lo dica.
Vincono non solo perché sono più belle e “sartoriali”, ma anche perché sono quelle che consumano meno. Questa è l’Italia, questo è il nostro modo di stare al mondo.