Segretario, il rinnovamento del contratto metalmeccanico è ormai da mesi fermo al palo. Le parti sociali non riescono a giungere all’accordo. Che idea si è fatto del documento interconfederale dei Sindacati e di quello di Federmeccanica?
Sul contratto metalmeccanico, contratto-guida in Italia come all’estero, si concentrano sempre tensioni sia di carattere economico che politico. Nel caso di questo rinnovo, si aggiungono i problemi legati alla crisi perdurante, alla discussione sulla riforma degli assetti della contrattazione e alla possibile riunificazione del fronte sindacale con il recupero della FIOM in un contratto finalmente unitario. È chiaro che tutto questo influisce sul rallentamento del negoziato, persino più dei problemi salariali odi contenuto. Di certo la distanza che esiste sulle proposte di riforma dei contratti tra imprese sindacato non aiuta. Dal punto di vista europeo, abbiamo molto apprezzato la proposta confederale, che affronta seriamente la rappresentatività delle parti la validità e copertura dei contratti. Altrettanto non posso dire di quella di Federmeccanica. Il mio è chiaramente un giudizio di parte, ma ci sono alcuni elementi oggettivi che non ci trovano d’accordo. Affidare l’inflazione al contratto nazionale e la produttività al secondo livello non è una novità, è così dal 1993. Tuttavia l’impressione che si ha dal documento di Federmeccanica è che dietro questa ovvietà si nasconda l’alternatività tra i livelli contrattuali, lo svuotamento del contratto nazionale, e il solito risparmio sul costo del lavoro. Anche le proposte sul welfare contrattuale, sulla previdenza integrativa e sulla formazione, mirano essenzialmente far risparmiare le imprese e a indebolire il sistema pubblico. Questa è una visione di corto respiro. Il recente Economici Outlook dell’OCSE mostra come le cose che mancano in Italia per spingerla competitività siano gli investimenti (pubblici soprattutto privati) che sono collassati negli ultimi anni, e la domanda interna. Altro che costo del lavoro e sterilizzazione dei salari. Sempre l’OCSE ci dice che i salari in Italia negli ultimi 15 anni sono sempre, dico sempre, cresciuti meno della produttività. Questo significa che la bassa produttività dipende da mancati investimenti, scarsa innovazione e carenza di domanda. I salari in Italia vanno alzati, non depressi, e l’unico modo per farlo in maniera flessibile e adatta alle esigenze di lavoratori e imprese è firmare buoni contratti.
Come crede finirà? Interverrà il governo?
Francamente ne dubito, sia perché non credo che il governo abbia interesse a farlo, sostenendo così la contrattazione nazionale e reiterando il metodo tripartito, sia perché da quello che sento credo che si possa essere fiduciosi che il contratto verrà fatto. C’è un interesse comune di entrambe le parti e persino di chi sta fuori dal contratto come la FIAT/FCA, che non vuole subire competizione al ribasso.
I «Tavoli sono per i mobilieri», questa la sintesi caustica del pensiero del presidente del Consiglio Renzi sulla concertazione. Lei cosa ne pensa invece?
Penso che Renzi abbia ragione a togliere di mezzo terminologie vecchie e ritrite che hanno fatto il loro tempo. Parlare di “tavoli” fa quasi ridere. Infatti penso che Renzi, che giustamente vuole essere moderno, dovrebbe usare un linguaggio più europeo, e parlare di dialogo sociale e di relazioni industriali. I dati del Fondo Monetario Internazionale (non certo un centro studi sindacale…) dimostrano che i paesi dove questi strumenti funzionano meglio, come quelli scandinavi ad esempio, ma anche la Germania o i Paesi Bassi, sono quelli con le migliori performance economiche, in termini di competitività di produttività. E questo perché le parti sociali sono quelle che meglio sanno gestire le dinamiche salariali, il mercato del lavoro, i sistemi di welfare. Ecco, se Renzi rifiuta anche questo, allora dimostra di non essere europeo e innovativo come dichiara, e di voler fare solo una battaglia ideologica e demagogica. Spero non sia questo il suo intento, alla lunga non pagherebbe.
Esiste un problema di rappresentanza nel nostro Paese? Se sì come va risolto?
Certo che esiste. Siamo ancora tra i meglio piazzati in Europa e nel mondo come rappresentatività sindacale (intorno al 35%, oltre il 50% nelle imprese dove ci sono pieni diritti sindacali). Non sono percentuali nordiche, ma comunque molto al disopra della media europea. Per gli imprenditori va un po’ peggio, e lo dico con rammarico perché questo indebolisce il potere contrattuale delle parti aumenta la frammentazione del fronte delle imprese, tra i più polverizzati d’Europa. Tuttavia il problema centrale, che è legato a questa frammentazione, che la Costituzione non è stata ancora applicata, non abbiamo un sistema legale di registrazione della rappresentanza, e quindi i nostri contratti non sono erga omnes, se non di fatto. Questo crea significativi problemi di copertura contrattuale, soprattutto nelle nuove aree del mercato del lavoro. Credo che il documento di CGIL-CISL-UIL indichi una via d’uscita, e credo che questa possa essere condivisa con Confindustria.
Per riavviare la crescita economica nel nostro sistema complessivo cosa sarebbe necessario fare? Dal suo osservatorio europeo cosa vede? Qual è la situazione “degli altri” nostri competitor?
La carenza di investimenti e di domanda non è solo un male italiano, lo è dell’Europa. E deriva dall’assenza di una politica economica adeguata. L’ossessione ideologica e cieca dell’austerità e degli equilibri di bilancio ha solo depresso l’economia, non riuscendo a ridurre né i debiti pubblici né la disoccupazione. Un fallimento su tutta la linea, cui si può rimediare solo derogando sensibilmente al Patto di Stabilità (non sto parlando di flessibilità, ma di deroghe, un vero strumento anticiclico). Questo, assieme ad un rafforzamento dei poteri economici dell’Unione, e in particolare dell’Eurozona, compresa la possibilità di mutualizzare parte del debito e usarlo come strumento di autofinanziamento, darebbe davvero la possibilità di spingere gli investimenti pubblici per far ripartire l’economia. E, come ci ricorda ancora l’OCSE, alimentare la spesa pubblica per investimenti innovativi non aumenta il debito, bensì lo riduce, perché fa crescere il PIL. Accanto a questo, come dicevo, ci vuole una vera politica di rilancio della domanda basata sui salari. Gli economisti più avvedutici spiegano che il futuro dell’economia europea non è nelle esportazioni, ma nel benessere. Per questo bisogna aumentare i redditi delle persone, e lo strumento più efficace per farlo è la contrattazione collettiva.