Il Centenario dell’Unione Industriali di Napoli ha offerto lo spunto per affrontare la questione del Mezzogiorno ponendo l’accento sul concetto di coesione economica e sociale da far crescere anche attraverso lo sviluppo industriale. Qual è la fotografia oggi?
Molti dei fondamentali della coesione economica e sociale mostrano ancora il permanere del divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Vi sono però segnali di miglioramento sul fronte dell’occupazione, cresciuta di circa il 3% nel Mezzogiorno tra la fine del 2013 e l’ultimo trimestre del 2016, in linea con la media nazionale.
Per la prima volta dopo diversi anni, nel 2015 il Pil è cresciuto nel Mezzogiorno più che nel resto del Paese: +1,1% contro lo 0,6% del Centro-Nord e della media nazionale. Si tratta di differenze decimali, ma il dato è significativo perché inverte una tendenza consolidata.
Un contributo importante a questo incremento proviene dal comparto agricolo (+7,1% la crescita del valore aggiunto) a fronte di una minore crescita nazionale (+3,7%) e del Centro-Nord (+1,6%). Altro segnale positivo proviene dai prodotti/produttori di qualità: tra il 2014 e il 2015, il numero dei produttori di beni di qualità è cresciuto nel Mezzogiorno del +4,7%, a fronte di un calo nel Nord (-2,5%).
Il primo convegno ha approfondito il tema Industria 4.0, che include l’uso dei Big Data fra le innovazioni di maggiore impatto. Le tecnologie connesse alla quarta rivoluzione industriale modificheranno il lavoro delle analisi di statistica? E in che modo?
Le tecnologie connesse alla progressiva digitalizzazione dell’economia rappresentano per l’Istat una sfida in una duplice prospettiva.
In primo luogo l’istituto, come fabbrica non solo di numeri ma anche di nuova conoscenza, guarda con attenzione all’utilizzo di nuove tecnologie e fonti di dati per ampliare e rafforzare la produzione e quindi l’offerta di statistiche ufficiali. In questo ambito sono già state realizzate alcune sperimentazioni sull’utilizzo dei Big Data (tra le altre, l’uso degli scanner data per i prezzi al consumo, la stima dei flussi di popolazione tramite i dati di telefonia mobile, l’utilizzo di Google Trend per il “nowcasting” dell’occupazione).
Il secondo aspetto riguarda la misurazione della trasformazione in atto nel sistema produttivo italiano, con particolare riguardo al settore manifatturiero. La cosiddetta Industria 4.0 interessa, in modo trasversale, tutti i settori e le diverse tipologie dimensionali di impresa e coinvolge aspetti di carattere tecnologico e organizzativo difficilmente misurabili secondo i tradizionali schemi di rilevazione e misurazione.
A livello internazionale (Eurostat e Oecd) sono in corso alcune importanti iniziative, cui l’Istat sta attivamente partecipando, finalizzate ad esempio a rilevare l’utilizzo delle diverse tecnologie digitali nelle diverse fasi del processo produttivo industriale (progettazione, sviluppo prototipi, produzione in serie e servizi alla produzione). Risultati di più ampia portata informativa potranno essere ottenuti nell’ambito dei prossimi censimenti economici permanenti.
Quale contributo offre il progetto Bes (Benessere equo e sostenibile, ndr) che l’Istat ha avviato da alcuni anni, al ritratto del Paese? Questo anche alla luce del riconoscimento che alcuni indicatori, come quello di diseguaglianza, hanno ricevuto all’interno del Def 2017.
Nel Def 2017 sono stati presentati per la prima volta quattro indicatori di benessere correntemente prodotti dall’Istat nell’ambito del progetto Bes, di cui noi cureremo il costante aggiornamento: il reddito medio disponibile aggiustato pro-capite, il tasso di mancata partecipazione al lavoro, l’indice di disuguaglianza del reddito disponibile e le emissioni di Co2 e altri gas clima alteranti. Si tratta del primo risultato fornito dal Comitato costituito recentemente dal governo per selezionare e definire gli indicatori da collegare al ciclo di programmazione economico-finanziaria.
A livello internazionale l’Istat ha un ruolo rilevante nelle attività promosse dalle Nazioni Unite per la definizione e misurazione degli indicatori 2030 per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Developments Goals), il cui primo set riferito all’Italia è stato diffuso lo scorso dicembre.
Per favorire la diffusione e la condivisione di questi temi, l’Istat ha aperto diversi tavoli di confronto tra i produttori e utilizzatori di statistica pubblica. L’obiettivo è promuovere una cultura condivisa sulla misurazione del benessere e sulla sostenibilità, anche in relazione alle valutazione delle policy a livello sia nazionale sia locale.
A questo proposito, qual è il ruolo delle imprese, e in particolare delle pmi, nel ridurre i divari territoriali?
La presenza di grandi imprese con stabilimenti localizzati in modo diffuso sul territorio è un elemento di complessità per la misurazione e l’analisi dei differenziali territoriali in relazione ai principali indicatori economici. Le statistiche territoriali sulle esportazioni di beni forniscono comunque un quadro aggiornato e coerente con la distribuzione geografica degli stabilimenti di produzione.
A partire dalla seconda metà del 2015, si registra un divario positivo nella performance sui mercati esteri delle regioni meridionali (+8,5% è l’incremento dell’export di queste regioni nel 2016 rispetto al 2015) rispetto alle altre ripartizioni territoriali italiane; contestualmente, si accentua la progressiva debolezza delle regioni insulari (-15% nel 2016 rispetto al 2015).
Anche le informazioni presenti nel sistema dei registri statistici sulle imprese e le unità locali forniscono un quadro coerente per l’analisi territoriale, seppure meno aggiornato. Nel periodo 2012-2014, il progressivo ridimensionamento della base produttiva industriale del nostro Paese, misurato sia in termini di numero di stabilimenti industriali (unità locali di tipo manifatturiero), sia di numero degli occupati, risulta diffuso nel Paese ma più accentuato nelle regioni meridionali e nelle isole (in tutte le classi dimensionali), con la positiva eccezione di Puglia e Campania, limitata però alle sole grandi imprese.
Il quadro delle statistiche sui conti economici delle imprese permette di tenere conto di alcuni “segnali” rilevanti per le micro (0-9 addetti) e piccole imprese (10-49 addetti), per le quali gli effetti distorsivi della plurilocalizzazione degli stabilimenti di produzione sono più contenuti.
Per le micro imprese del Sud la difficoltà è più accentuata nella performance economica che per quella occupazionale rispetto alle imprese del Centro-Nord.
Per le piccole imprese del Sud permangono, invece, difficoltà analoghe rispetto al resto d’Italia. Si segnala, però, che il tasso di crescita della produttività apparente del lavoro di queste imprese è sostanzialmente allineato a quello delle piccole imprese del Centro-Nord.
L’equilibrio tra le generazioni è uno dei temi più sensibili per la coesione del Paese. Quali urgenze sono evidenziate dai dati a vostra disposizione?
Nel nostro Paese lo squilibrio tra generazioni di anziani (65 anni e più) e di giovani (fino a 14 anni) è tra i più alti al mondo – 165,2 anziani per 100 giovani secondo le stime più recenti (1° gennaio 2017) – ed è previsto in rapido aumento nel futuro. Lo sbilanciamento strutturale in favore delle età anziane è previsto che raggiunga il suo culmine nel 2045, con il 33,7% di ultrasessantacinquenni (contro il 22,3% del 2017).
Le generazioni tuttavia non sono soltanto marcate dall’età, ma sono accomunate da storie e culture diverse. Via via che si avvicendano, le “generazioni” mostrano comportamenti e stili di vita inediti o differenti. I nuovi anziani, ad esempio, hanno una salute migliore (a parità di età), sono dotati di maggiori risorse culturali e personali, hanno un crescente livello di istruzione e alfabetizzazione tecnologica.
I nuovi giovani adulti, invece, si trovano in uno stato di precarietà maggiore dovuto a storie lavorative incerte e discontinue, che inevitabilmente si rifletteranno sulle loro pensioni future. Per queste generazioni è necessario progettare sistemi di protezione sociale adeguati e innovativi.
La solidarietà tra le generazioni rimane, però, un tratto distintivo del nostro sistema di reti sociali. È questo rapporto che ha consentito di limitare gli effetti sociali della crisi. La caduta di dieci punti percentuali del tasso di occupazione dei giovani fino a 34 anni è stata “ammortizzata” dalle famiglie di origine (il 63% dei giovani di 18-34 anni vive con i genitori, di questi quelli in cerca di occupazione sono il 29,7%).
I nonni si occupano dei nipoti e spesso dei loro anziani genitori non autosufficienti. Tuttavia, nonostante la coesione tra le generazioni sia un punto di forza della rete di cura familiare, la limitata presenza di una solida rete di servizi e le mutate condizioni socio-demografiche ne mettono seriamente a rischio la sostenibilità.
Il sistema infatti è sovraccarico e non equo, occorre quindi intensificare gli interventi di policy a sostegno delle famiglie nelle diverse fasi della vita.