“La riforma del mercato del lavoro deve procedere in parallelo con le politiche per la crescita. Sviluppo e ripresa dell’occupazione sono strettamente legati fra loro e da parte nostra è doveroso ricordare che l’azione intrapresa su un versante non può sostituire quanto è necessario fare sull’altro”.
È questa la prima raccomandazione – di metodo, si potrebbe dire – che il presidente di Piccola Industria, Alberto Baban, rivolge al governo a proposito del processo di riforma avviato in materia di lavoro. Completandola poi con un invito più specifico, quello di “affrancarsi da una logica volta esclusivamente alla conservazione del posto di lavoro” nel dialogo governo-parti sociali. E spiega: “Nel tempo necessario ad analizzare un problema, intavolare una trattativa e giungere a un risultato, le aziende hanno già chiuso e ci ritroviamo di fronte a un problema ancora più grosso. Non siamo per una politica del tappare le falle, siamo al contrario per una politica che contribuisca a fare uscire il paese da questa fase di stallo che sta procurandoci una lenta e dolorosa regressione”.
Oggi non possono esserci dogmi in tema di lavoro. Una volta compresi i fattori economici, il volto delle nuove imprese e dei nuovi lavoratori, il secondo passo è mettere a punto le modifiche contrattuali che agevolano i cambiamenti.
Qual è la prima cosa da fare per far ripartire l’economia e creare nuovi posti di lavoro?
Dobbiamo ricostruire un patto con i lavoratori che tenga conto dei profondi mutamenti economici avvenuti. I mercati hanno cambiato velocità, tuttora attraversano una metamorfosi e le produzioni di una decina di anni fa – per tipologia e volumi – oggi non esistono più, probabilmente non ritorneranno, così come non torneranno certi tipi di lavoro.
Leggere questi cambiamenti con un approccio conservatore e quindi contrastarli con la promessa di mantenere le cose come stanno sarebbe un inganno. Dobbiamo invece renderci conto che si tratta di una grande opportunità per il manifatturiero italiano e, assumendo questa logica, spiegare bene chi sono i nuovi lavoratori e quali sono le nuove competenze e i lavori richiesti.
Significa che le tipologie contrattuali devono riflettere questo cambiamento?
Sì, ma ribadisco che prima di tutto è necessario avere una lettura, una visione d’insieme, su come evolverà il lavoro nel prossimo futuro.
Il nostro punto di vista è che l’Italia è un grande paese manifatturiero e occorre ripensarlo in quest’ottica. Con un ritorno, dunque, alla produzione di manufatti tout court, alla quale si accompagnerà una graduale ripresa del settore dei servizi che da sempre è legato al ciclo del manifatturiero.
Sottolineerei, inoltre, il contributo che può dare la cosiddetta digi-fattura, ovvero l’insieme delle produzioni che nascono dall’incontro fra tecnologie digitali e manifatturiero. Anche qui, infatti, c’è un luogo comune da sfatare e cioè la convinzione che l’automazione – o più in generale il progresso tecnologico – faccia diminuire in maniera drastica il numero dei lavoratori all’interno di un’azienda. Non è così.
Per quei mestieri legati alle tecnologie digitali, soprattutto, sono necessarie elevate competenze tecniche sia in fase produttiva sia in fase commerciale, che aprono quindi nuove opportunità occupazionali. Pensiamo, ad esempio, alla lean production e a quanto questa filosofia necessiti di persone competenti per ottimizzare i processi aziendali.
Tornando al discorso generale, se applichiamo questa visione nella contrattazione, ci saranno molte più opportunità per i lavoratori di agganciare i settori più effervescenti. Flessibilità è seguire la velocità dei cambiamenti, non subire la metamorfosi dei mercati in corso.
Lei chiede un cambiamento culturale.
Esattamente. Oggi non possono esserci dogmi in tema di lavoro. Una volta compresi i fattori economici, il volto delle nuove imprese e dei nuovi lavoratori, il secondo passo è mettere a punto le modifiche contrattuali che agevolano il seguire questi cambiamenti.
L’ipotesi del contratto unico a tutele progressive nel tempo proposto dal governo va nella direzione opposta?
La progressione delle tutele presuppone che in un’azienda, partiti da una certa situazione, si conosca con esattezza il punto di arrivo. L’esperienza della crisi, invece, ci dimostra che questo non è possibile; ci siamo trovati tutto a un tratto impreparati ad affrontare un mercato che è cambiato radicalmente nel giro di pochi anni.
Detto questo, sarei favorevole a una contrattualistica flessibile nelle modifiche e assolutamente al passo con i tempi. Per il momento, quindi, è preferibile ragionare e migliorare le tipologie contrattuali esistenti.
Il governo ha delineato un piano complessivo di riforme del mercato del lavoro. Qual è il suo giudizio?
Come primo atto l’Esecutivo ha cominciato dal tema del lavoro e ha interagito in modo veloce. È un approccio che piace a Piccola Industria. Lo apprezziamo perché si è aperto un dialogo – che non ha il sapore della concertazione – nel quale ciascuno indica le proprie esigenze e il risultato è l’assunzione di nuovi modelli che possono essere di aiuto al sistema delle imprese.
In precedenza, invece, avevamo avuto spesso l’impressione, come imprenditori, di essere gli unici a denunciare i problemi.
Entrando nel merito dei provvedimenti e fatto salvo che siamo ancora in una fase di definizione, è positivo il giudizio sul contratto di apprendistato e sull’applicazione del piano europeo Youth Garantee. Auspichiamo che il governo mantenga questa posizione riformista.
La delega prevede di inserire anche in Italia il salario minimo legale. Cosa ne pensa?
Il dovere di proteggere il lavoro passa, nel nostro caso, per missione istituzionale, dal dovere di proteggere l’impresa. Il salario minimo è un tema molto delicato e se ne può parlare, tuttavia all’interno del sistema degli ammortizzatori sociali crediamo vada in primo luogo riformato l’istituto della cassa integrazione, superando nello specifico le tipologie in deroga e rafforzando invece l’Aspi.
Il diritto è al lavoro, ma affinché questo sia possibile è necessario che in Italia esista il diritto a fare impresa e che lo Stato sia amico di chi crea posti di lavoro. A nostro avviso, infatti, non esistono altri sistemi per creare occupazione se non attraverso le imprese.
Ha già viaggiato molto per i territori. Come vivono le pmi il tema dell’aumento della disoccupazione, specie giovanile?
C’è una sensibilità particolare, dovuta al fatto che da sempre nelle piccole e medie imprese il primo lavoratore è l’imprenditore stesso, il quale vive da vicino – e per questo ben comprende – le difficoltà dei lavoratori che restano a casa perché l’impresa non riesce a stare sul mercato. I lavoratori sono percepiti più come collaboratori che come dipendenti, condividono il rischio d’impresa e c’è grandissimo rispetto reciproco nel rapporto con l’imprenditore.
Andando in giro per l’Italia ho visto come, da Nord a Sud senza eccezioni, il dato sulla disoccupazione giovanile non sia accettato.
Gli imprenditori vogliono reagire e si fanno carico del problema anteponendolo alla redditività stessa.
Lavorando la maggior parte per il mercato domestico, ancora non hanno ben chiaro quale sarà il trend dei prossimi mesi, ma nonostante ciò hanno una grande voglia di cambiare una situazione che non dà futuro ai propri figli e ai giovani.