Quali sono le prime tre cose necessarie per rimettere in moto, in Italia, la crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro?
La Cgil ha avanzato una proposta organica per creare occupazione e crescita, un vero e proprio ‘Piano del Lavoro’ che mette il lavoro al centro delle politiche economiche come sola strategia possibile per uscire dalla crisi. Per realizzare tutto questo bisogna produrre un cambiamento netto e compiere scelte altrettanto radicali.
Ad esempio, serve intervenire sulla formazione, sulla qualità dei rapporti di lavoro, sull’innovazione di prodotto, sulle scelte fondamentali del nostro modello di sviluppo, sulle singole politiche industriali. Un ampio spettro d’interventi sui quali investire, anche e soprattutto con il sostegno del sistema pubblico, che rendano il lavoro propulsore di una nuova crescita del paese più equa e più competitiva.
Se si vuole invertire la tendenza al declino c’è una sola via praticabile: partire dal lavoro, il che significa intervenire anche sul fisco e sul sistema previdenziale, metterlo al centro delle politiche e degli investimenti.
Il governo ha delineato un piano di riforme del lavoro. Un primo passo è la nuova regolazione del contratto a termine, ma la gran parte della riforma è nel disegno di legge delega all’esame del Parlamento. Qual è la sua valutazione complessiva?
Non si può negare che, al momento, la confusione sia tanto grande quanto le contraddizioni che questi provvedimenti determinano.
Basterebbe riflettere sul binomio contratto unico a tutele crescenti e liberalizzazione dei contratti a termine. Come si pensa sia possibile sperare di aumentare l’occupazione stabile partendo da questa contrapposizione?
Le aziende hanno nel lavoro un fattore decisivo di crescita. Renderlo sempre più precario e instabile non permette all’impresa né al lavoratore di investire reciprocamente il proprio futuro nel progetto che si sta costruendo.
Sul decreto lavoro la nostra valutazione è stata chiara: in assoluta controtendenza con quanto dichiarato all’atto dell’insediamento, questo primo provvedimento del governo sul lavoro, più che favorire percorsi di stabilizzazione, ha come finalità la moltiplicazione delle forme di precarietà.
Valuteremo la discussione sul disegno di legge delega, al momento, risalta la contraddizione tra l’annunciare l’obiettivo della stabilizzazione dei rapporti di lavoro come fattore di competitività delle imprese e determinare, invece, maggiore precarietà.
Gli ammortizzatori sociali sono uno snodo fondamentale. Confindustria ne chiede due, universali e obbligatori: la cassa integrazione guadagni, per affrontare le crisi in cui è prevedibile una ripresa dell’attività e l’Aspi per quanti hanno perso il lavoro e sono attivamente alla ricerca di nuova occupazione. È un punto di arrivo condivisibile?
La Cgil è per costruire un sistema universale fondato su due pilastri: un ammortizzatore, come la cassa integrazione, per tutte le imprese e un’indennità di disoccupazione per tutti i lavoratori a prescindere dalla tipologia contrattuale con la quale sono assunti.
Centrale sarà il ruolo che vorrà giocare il governo.
Non si può, infatti, pensare di avviare un sistema a tutele universali che guardi cioè a tutti i lavoratori e a tutte le imprese, senza il coinvolgimento della fiscalità generale che supplisca al contributo che dovrà venire dal mondo del lavoro.
Un principio, quello dell’universalità, che fatica ancora a farsi largo per le resistenze di alcune lobby datoriali, per la scarsa volontà di investire risorse in questo campo, per la presenza ancora forte di quell’ideologia del laissez-faire che ha causato così tanti danni.
La delega prevede di introdurre anche in Italia il salario minimo legale. Cosa ne pensa, quali obiettivi si dovrebbero perseguire con questa innovazione?
Anche in Italia ormai s’impone una riflessione sull’introduzione di un salario minimo che va legata a quella in corso a livello europeo.
Difficile, per le condizioni normative, sociali, economiche e contrattuali italiane e continentali, racchiudere nei ristretti confini nazionali una tematica di queste dimensioni.
C’è sicuramente bisogno di più Europa anche sulle politiche salariali e la discussione sul salario minimo dovrebbe incentrarsi su come evitare pratiche di dumping sul lavoro e sui costi tra i diversi paesi europei.
Su questo punto la Confederazione Europea dei Sindacati e le associazioni europee degli imprenditori dovranno essere in grado di ricoprire un ruolo propositivo e contrattuale di primo piano.
Gli ultimi accordi tra sindacati e Confindustria hanno fissato princìpi molto importanti che adesso vanno applicati coerentemente. Le imprese sono per un decentramento della contrattazione, come si riscontra in tutta Europa. In particolare, si vorrebbe favorire la contrattazione aziendale legando i salari ai risultati di redditività e produttività. Che ne pensa?
Sì, abbiamo appena sottoscritto un accordo storico che dà certezza alla rappresentanza e alla contrattazione. Per questo mi sono stupita di alcune recenti affermazioni dei vertici di Confindustria che sembrano voler mettere in discussione la contrattazione nazionale. Da una scelta simile non verrebbe nulla di buono.
Al contrario, si aprirebbe una stagione sciagurata di corporativismo e rincorsa normativa e salariale. Altra cosa è se si vuole dare maggiore impulso alla contrattazione aziendale, prevedendo una sua ampia diffusione.
Per il sindacato il contratto nazionale rimane uno strumento centrale, così come la contrattazione aziendale è, per noi, strategica. Gli accordi sottoscritti in questi anni, gli avanzamenti raggiunti, specie per quanto riguarda la condivisione delle regole nella relazione tra le parti, e lo sforzo che abbiamo, tutti, compiuto, lo dimostrano.
I due livelli, necessariamente, si integrano e non credo utile, né praticabile, imboccare la strada di legare i salari esclusivamente ai risultati di redditività dell’impresa.
Piuttosto, la Cgil è molto interessata a dare concreta applicazione all’articolo 46 della Costituzione, a immaginare un sistema di consultazione e informazione simile a quello tedesco.
È pronto e maturo il sistema delle imprese per compiere un salto culturale di queste dimensioni?