La comunità internazionale ha imparato la lezione dalla pandemia? I paesi sono disposti a cooperare per mettere in campo politiche per tutelare l’ambiente e salvaguardare il pianeta? Per Stefano Manzocchi, direttore della Rivista di Politica Economica, è ancora presto per dirlo e gli impegni andranno verificati sul lungo periodo. Sicuramente oggi c’è molto su cui riflettere a partire dal fatto che, come risulta oramai dimostrato dagli studiosi, l’inquinamento e la progressiva riduzione degli habitat naturali costringono l’ecosistema a reagire e possono accrescere il rischio di innescare in futuro nuove pandemie.
Una maggiore consapevolezza, dunque, c’è e “lo sforzo internazionale si è concretizzato nella ripresa dei negoziati sul clima (il riferimento è alla 26esima Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite in programma a Glasgow il prossimo autunno, ndr) e nel rientro degli Stati Uniti negli Accordi di Parigi”, afferma Manzocchi. Ma più ancora forse, secondo il docente di International Economics alla Luiss, contano i comportamenti adottati da imprese e famiglie, i quali se presi a modello potrebbero aiutare nel lungo periodo a mitigare le emissioni climalteranti. “Mi riferisco allo smart working – spiega Manzocchi – all’uso di modalità di trasporto meno inquinanti, a stili di consumo diversi”.
Non c’è forse dunque momento storico più adatto per scegliere di dedicare un numero della Rivista di Politica Economica al tema della sostenibilità ambientale, che in occasione dei 110 anni compiuti dalla seconda rivista di economia più antica del Paese (la prima è il Giornale degli Economisti fondato a Padova nel 1875, ndr) viene affrontato con un taglio ben preciso.
Nel primo numero del 2021, “Sostenibilità ambientale e innovazione – Spillover internazionali, strategie industriali”, i primi quattro saggi affrontano le esternalità internazionali della questione climatica e i punti di contatto con altri argomenti (le catene globali del valore e le migrazioni, per fare un paio di esempi); i quattro saggi della seconda parte circoscrivono, invece, l’analisi all’innovazione per come abitualmente la conosciamo, scattando una fotografia del sistema manifatturiero italiano.
“La risposta del tessuto produttivo italiano allo stimolo della questione ambientale si è tradotto non soltanto nell’adozione di alcuni comportamenti virtuosi – spiega Manzocchi – ma anche in una maggiore propensione alla ricerca, in una spinta alla crescita dimensionale e anche in un aumento della produttività”.
Se la transizione verde è un percorso obbligato, l’Italia come è messa? “Complessivamente il quadro è positivo – risponde il docente –. In particolare, la nostra industria fa bene sotto il profilo dell’impronta carbonica e siamo ai primi posti in Europa per basse emissioni climalteranti. Ciò non dipende solo dal fatto di essere specializzati in settori di per sé poco inquinanti, ma anche dall’essere capaci di riutilizzare bene i materiali e produrre pochi scarti. Un po’ indietro lo siamo nei brevetti, ma è la conseguenza di una generale difficoltà del nostro Paese su questo aspetto, salvo poi che negli ultimi anni nel comparto della mobilità sostenibile, ad esempio, l’Italia ha fatto progressi importanti anche in questo campo”.
Lo sguardo di insieme offerto dai saggi raccolti nella Rivista di Politica Economica si sofferma su un altro aspetto connesso alla questione ambientale e cioè quello delle catene globali del valore. La pandemia ne ha messo in risalto la debolezza – ricordiamo tutti le difficoltà di approvvigionamento di forniture sanitarie e informatiche incontrate nel primo lockdown – e Manzocchi non nega che “catene così lunghe possono esporre a rischi di scarsità o di interruzione”. Tuttavia, nel 2020 ad andare in tilt non è stata l’industria, bensì tutta l’economia che poggia sui servizi, in quanto “le caratteristiche stesse della pandemia hanno compresso settori quali i trasporti, la ristorazione, la cultura e il turismo”.
Rispetto alle intersezioni fra catene globali del valore e questione ambientale, sottolinea il docente, il problema però è un altro e cioè che “acquistare componenti in aree dove vigono regole differenti rispetto a quelle imposte dall’Europa, può contribuire ad alterare sia la competizione fra le imprese, sia l’impronta carbonica. Questo tema – sottolinea – va risolto a livello di governance globale. Occorre cioè che l’Europa, che in questi anni con l’assenza degli Stati Uniti è diventata la portabandiera della lotta al cambiamento climatico, trovi il modo di evitare che le proprie regole interne vengano bypassate attraverso le catene del valore”.
La questione ambientale sembra aver di colpo rimpicciolito il pianeta. Comportamenti dannosi possono presentare il conto meno tardi di quanto si pensi. È quello che accade con il fenomeno migratorio legato alle catastrofi naturali. La rivista vi dedica meritoriamente un contributo ad hoc, che pur non individuando un chiaro e omogeneo nesso causale e rimandando a una relazione più articolata, accende i riflettori su un tema troppo spesso liquidato come esito di guerre o fenomeni di terrorismo. “Le catastrofi naturali non sono l’unico motore delle migrazioni, ma ne sono una componente fortissima – specifica Manzocchi –. Ciò vale sia all’interno di singoli paesi, come India e Cina, che nella mobilità internazionale. Agire sul clima può essere la soluzione per non trovarsi poi ad affrontare emergenze umanitarie e non soltanto climatiche”.
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