“Che cosa succederebbe se…?” È la domanda a cui l’analisi What If cerca di rispondere. Quel quesito scomodo che spesso non ci poniamo, interrogandoci solo su una rosa ristretta di opzioni e azioni già in campo, senza immaginare strade diverse per la crescita. Un esercizio di immaginazione sfidante, molto usato nel marketing, che può aprire porte e percorsi inediti, con una netta spinta fuori dalla cosiddetta comfort zone. Oltre che un valido strumento di business intelligence, è un approccio spesso adottato quando c’è bisogno di apportare una variazione su un piano d’azione, ritoccare qualcosa che già esiste (ma magari non funziona come vorremmo) ed esplorare con mente aperta tutti gli scenari possibili, senza farsi condizionare da oggettivi impedimenti. Un modo per sondare alternative molteplici, incluse quelle che implicherebbero a monte forti cambiamenti come precondizione. Un’attività che non si può improvvisare ma necessita di metodo e spesso di software ad hoc.
Nella logica del What If – fluida e open – le regole di base sono poche ma solide. D’altronde non è una sfera di cristallo bensì uno strumento scientifico, ancorato ai dati e alla logica, che solo se applicato con rigore porta valore nella sua applicazione. Golden rule numero 1: più specifica è la domanda, più chiara sarà l’indicazione che se ne potrà trarre. “Cosa accadrebbe se ogni business unit dell’azienda lavorasse in modo integrato con le altre, con punti di contatto fissi due giorni fissi a settimana dalle 9 alle 13 secondo un calendario di riunioni e puntuali ordini del giorno e se anche fisicamente in quegli slot le persone fossero sedute in un unico spazio open space? Aiuterebbe a ridurre i silos organizzativi?”. Ma anche: “Se le vendite calassero del 5%, quanto peggiorerebbero i profitti?” oppure “è più conveniente l’acquisto del macchinario XX (che costa Y) o è meglio prenderlo a noleggio (al prezzo di Z ma con tot inconvenienti)?”. O, ancora, “qual è il prezzo minimo a cui poter vendere il prodotto X senza andare in perdita?”.
Stiamo parlando, di fatto, di una simulazione: l’analisi portata avanti su piattaforme come Cybertech, Board o Noos – solo per citarne alcune – fotografa l’impatto di una variabile, quindi di una scelta di business come un investimento, una politica di prezzo su altre (per esempio i ricavi, i costi o i profitti), grazie a una rappresentazione semplificata dell’azienda o di una sua componente.
Storicamente la metodologia si è sviluppata nell’ambito della statistica multivariata che usa, come suggerisce il nome stesso, più variabili per la costruzione di scenari. Successivamente ha trovato terreno fertile nel mondo finanziario per stimare flussi di liquidi, in quello assicurativo per la gestione del rischio, e in ambito IT per modelli e tecniche di simulazione.
È un tipo di attività che rientra nella categoria dei predictive analytics: gli studi che producono previsioni sul futuro (solitamente a medio e lungo termine) partendo da dati storici o di tendenza, per ricerca di indicazioni utili alle strategie aziendali e generalmente di rilievo per il marketing. Variando alcuni parametri si simulano diversi scenari e si mette a fuoco l’impatto che avrebbe una determinata scelta sui costi, sui ricavi, sui profitti e così via.
Non occorre per forza ricorrere a servizi esterni o 4.0: l’operazione a volte è possibile anche attraverso una funzionalità, spesso trascurata, di Excel, dove l’opzione What If Analysis consente di esplorare diversi scenari senza modificare i valori nel foglio di calcolo. Una funzione particolarmente utile per esperti di economia e gestione, così come per i proprietari di attività commerciali per valutare in relativa autonomia come i diversi valori influiscono su modelli, formule e profitti previsti.
Quanti scenari possiamo immaginare? Tanti quanti sono i valori assunti dalle variabili prese in considerazione: se immaginiamo di vendere un prodotto a uno, due o tre euro, per esempio, si dovranno realizzare tre simulazioni di scenari alternativi. Se a questo aggiungiamo quattro possibili mercati sui quali far approdare il prodotto, il numero aumenta ancora e si procede per incroci.
Altra opzione interessante è quella battuta dalle molte aziende che non vogliono limitarsi a prevedere futuri possibili: l’uso della logica What If per capire come sarebbe diverso il presente se potessimo tornare indietro nel tempo per modificare qualcosa (“che cosa sarebbe successo se…”). Anche qui, se si procede con rigore “tecnico” si ottengono risultati utili alla ridefinizione di un business model, consultabili tramite semplici fogli di calcolo o strumenti di business intelligence più raffinati, capaci di integrarsi con database di dati storici.
A differenza delle analisi predittive evolute, la What if Analysis ha un vantaggio-chiave: richiede pochi dati di base per poter essere elaborata. Di qui il limite: il metodo può gestire solo previsioni di business semplici e con poche variabili. Quando i dati che si hanno a disposizione diventano consistenti, così come gli elementi in gioco da valutare per la proiezione, la semplice analisi What If operata con Software basilari non basta e il processo decisionale deve fare affidamento a strumenti più sofisticati.
Consigliato dunque a chi punta alla velocità d’azione, ma anche ad abbattere i costi delle consulenze esterne. Avendo sotto controllo i pro e contro di ciascuna opzione sul tavolo, infatti, si possono compiere scelte più rapidamente mantenendo la qualità del processo decisionale grazie a punti di riferimento oggettivi e quantificabili. Questo aiuta a prendere decisioni in autonomia, riducendo la necessita di rivolgersi a consulenti esterni, cui spesso ci si affida per “aprire l’orizzonte” e “guardare le cose da fuori”. Se il metodo è ben applicato non serve lo sguardo esterno, perché le analisi stesse portano a nuove strade e possibilità: lo sviluppo di un nuovo prodotto, l’inseguimento di un nuovo target di clientela, l’ingresso in un nuovo mercato e altro ancora.
Il Covid-19 ha fatto dell’incertezza la “nuova normalità”: in questa dimensione bisogna imparare a viaggiare e ridisegnare imprese e organizzazioni. I pianificatori della produzione conoscono la differenza che c’è tra l’anticipare e il semplice reagire alle interruzioni della produzione. Lo sapevano prima della pandemia e ne hanno piena consapevolezza oggi perché la crisi ha rappresentato un’interruzione per le catene di fornitura e produzione cui è stato difficilissimo fare fronte.
In questi mesi complicati, l’utilizzo della metodologia What if si è dimostrato vantaggioso per tanti e oggi la maggior parte dei pianificatori ragiona in ottica probabilistica, ma con metodo. È diventata attività “corrente” la simulazione degli scenari produttivi futuri, basata su previsioni della domanda e della produzione e su una chiara visione dei vincoli. Un approccio che ci accompagnerà, consapevoli che la grande sfida del nostro tempo è governare per quanto possibile l’incerto. Farci trovare pronti.
Segmentare, ma non come prima: l’esperienza di Confindustria
Applicando la logica “what if” il sistema individua e accresce il valore delle filiere. Sono in corso progetti pilota che coinvolgono territori e categorie. Obiettivo: aumentare l’impatto del brand
L’applicazione sul caso Confindustria del modello Business Model Canvas, lo schema usato nei contesti aziendali per inquadrare aree di forza e debolezza e identificare nuove strade per la crescita, ha portato l’intero sistema ad interrogarsi su alcuni driver-chiave: quali sono i segmenti più significativi del nostro target? Quali gli elementi centrali della nostra offerta? Come veicoliamo il valore? Quale assetto organizzativo interno sostiene oggi il nostro business model e ne consente la concreta applicazione? Domande apparentemente semplici che hanno aperto nuovi scenari, grazie all’approccio con cui la squadra (oltre 200 responsabili marketing del sistema, riuniti nella Rete) ha lavorato. Uno dei presupposti per una efficace applicazione del Model Canvas è la modalità aperta con cui occorre ragionare sui singoli ambiti del framework.
In una logica What if, appunto. Una delle evidenze emerse dal lavoro di questi mesi è che oggi la maggior parte delle associazioni del sistema segmenta il suo mercato in modo verticale, per industrie, secondo codici Ateco. Una “prassi” che genera in partenza una scarsa integrazione tra le anime del sistema, che invece potrebbero dare maggior valore in modo complementare se la segmentazione del mercato avvenisse sempre e solo per filiera. In quest’ultima, infatti, trova spazio l’azione dei territori e quella della categoria, si fortificano le alleanze, aumenta l’impatto del brand perché si genera un’offerta mirata e su misura per il target grazie al meglio che le due parti possono mettere in campo.
Questo semplice passaggio ha consentito l’avvio di alcune esperienze pilota su altrettante filiere, che vedono coinvolti territori e categorie. Le esperienze sono in itinere: si stanno definendo linee d’azione comuni, non senza difficoltà. Si punta ad espandere e rafforzare la base, con attività mai sperimentate prima e un diverso modo – aperto e innovativo – di “leggere” il mercato.
(Servizio pubblicato sul numero di luglio dell’Imprenditore)