Stati Uniti e Italia sono legati da rapporti di lunga data, sia politici che economici. Allo stesso tempo ricordiamo che il nostro Paese è uno dei fondatori di quella che oggi è l’Unione europea. L’Italia come dovrebbe bilanciare due ruoli che potrebbero avere, talvolta, interessi differenti?
L’Italia, soprattutto dopo la decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione europea, ha un’occasione storica: diventare il primo referente degli Stati Uniti all’interno dell’Unione europea, posizionandosi come elemento determinante per le strategie americane in Europa. In questo modo potrebbe guadagnare peso negoziale al tavolo europeo, creando un contraltare nei confronti dell’asse tra Germania e Francia, ancora molto forte e influente allorquando si debbano assumere le decisioni strategiche in ambito europeo.
Trump è un presidente che da sempre ama l’Italia e la scelta che dovrebbe compiere circa il prossimo ambasciatore lo testimonia: Lewis Eisenberg, unico nome che oggi circola sebbene non ci sia ancora una decisione formale, è uomo vicinissimo al presidente Trump, è stato colui che ha gestito tutto il processo di raccolta fondi del partito repubblicano nel corso della campagna presidenziale, portando molti finanziatori scettici nei confronti di Trump ad appoggiare e finanziare la campagna presidenziale. Una scelta di questo tipo dimostrerebbe senza dubbio come l’Italia sia, all’interno dei progetti di Trump, un paese di primo piano.
Il presidente Trump ha più volte annunciato una svolta protezionistica in campo commerciale. Cosa ne pensa? E quali conseguenze potrebbe avere nell’interscambio con l’Italia?
Il presidente Trump sta perseguendo, in modo chiaro, gli obiettivi che si era posto nel corso della campagna elettorale, ovvero rilanciare in modo imponente il settore manifatturiero americano, come – a dir la verità – aveva già iniziato a fare Obama.
La presunta svolta “protezionistica” è in realtà una presa d’atto di una realtà esistente da tempo: osservando il deficit commerciale americano, che ammonta a 734,3 miliardi di dollari nel 2016, si nota come quello nei confronti della Cina sia pari a 347 miliardi di euro, che quindi rappresenta oltre il 50% del deficit totale americano.
L’intenzione di Trump è perciò quella di bilanciare questa situazione, mirando a una riduzione del deficit mediante maggiori esportazioni nel mondo di prodotti americani e di una rinegoziazione dei trattati commerciali esistenti, quali il Nafta.
La rinuncia al Tpp e l’abbandono – peraltro causato dalla riluttanza di alcuni paesi europei – del Ttip si giustificano non con la volontà di “chiudere” l’economia americana, ma con l’intento di mantenerla aperta in modo più “fair” rispetto a quanto fatto sinora. L’Italia ha un surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti pari a circa 28 miliardi di dollari (45 di export versus 17 di import) derivante soprattutto da prodotti afferenti al settore meccanico e alimentare. Questi prodotti, ad alto valore aggiunto e tecnologico, sono molto apprezzati sul mercato americano, motivo per cui non vedo grandi rischi per le nostre imprese esportatrici.
Diversa potrebbe essere la situazione per le imprese, operanti nel settore delle costruzioni, che provano a partecipare ad appalti su grossi progetti infrastrutturali. Il “Buy American”, già in atto sotto Obama, potrebbe venire rafforzato per tutelare maggiormente le imprese americane. Staremo a vedere.
Allo stato attuale è da escludere la ripresa dei negoziati per il Ttip?
Direi di sì, anche alla luce della volontà di procedere con negoziazioni bilaterali abbandonando la logica dei mega accordi regionali. Ribadisco come il Ttip non sia saltato per i dubbi da parte americana, che comunque vi erano nel corso delle negoziazioni condotte sotto l’Amministrazione Obama, ma a causa delle divisioni e delle importanti obiezioni emerse dal lato europeo, con Francia e Germania in testa. Il Regno Unito, insieme all’Italia, è stato tra i principali attori alla ricerca di un accordo che permettesse di chiudere un primo accordo tra Stati Uniti e Unione europea.
Con la prossima uscita del Regno Unito dalla Ue, è probabile che ritorni la “special relation” che vi è sempre stata tra Stati Uniti e Uk, elemento che da un lato indebolirebbe l’Europa e dall’altro darebbe però l’opportunità all’Italia di essere partner strategico degli Stati Uniti all’interno dell’Unione europea a 27.
Che tipo di supporto vi è più richiesto dalle imprese italiane, in particolare pmi, con cui vi relazionate?
Le imprese italiane ci chiedono soprattutto informazioni su come poter approcciare correttamente il mercato americano, in termini di certificazioni necessarie per le esportazioni, ricerca di potenziali partner commerciali. Le imprese maggiormente strutturate, che hanno intenzione di effettuare investimenti, si rivolgono a noi per essere supportate nella selezione degli Stati che meglio rispondono alle loro esigenze di progetto, nell’analisi degli incentivi a disposizione e nel contatto con le EDOs locali, organizzazioni che aiutano le imprese nell’investimento e che preparano i pacchetti incentivanti.
Qualora l’impresa desiderasse effettuare un’acquisizione, ci occupiamo di identificare i potenziali target e di creare il contatto, lasciando poi ai consulenti finanziari la definizione della struttura dell’operazione. Come si potrà notare, offriamo servizi utili soprattutto nella fase di progettazione e di analisi di fattibilità dell’investimento.
Infine, non si rivolgono a noi solo pmi, ma anche importanti gruppi italiani strutturati che vedono in AmCham non solo un’organizzazione con un network rilevante, ma come un partner strategico per sviluppare i loro progetti di espansione negli Stati Uniti.
Quali suggerimenti darebbe alle pmi?
È necessario essere pronti a investire tempo e risorse, vista la complessità e differenza che c’è tra gli Stati Uniti e molti paesi europei con cui normalmente le pmi italiane hanno rapporti commerciali.
Prima di procedere con progetti di espansione, è utile iniziare a frequentare le fiere di settore, per rendersi conto di quali siano i competitor, i potenziali partner, di come ci si debba relazionare con gli americani, che hanno una concezione del business abbastanza diversa rispetto alla nostra.
Infine, si deve essere strutturati con un ufficio internazionale e con almeno una persona che sia deputata a seguire il mercato americano, possibilmente in loco: è molto più duro avere successo negli Stati Uniti gestendo tutto dall’Italia, senza avere uomini sul campo in grado di rispondere in modo tempestivo alle richieste dei clienti.