
Il destino dell’Europa passa da Berlino e da come la Germania affronterà la transizione verso il dopo-Merkel. Il processo che ha condotto alla nomina di Christine Lagarde, attuale direttore del Fondo monetario internazionale, a presidente della Bce, e del ministro tedesco Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea, ha messo in luce l’attuale debolezza della Cancelliera tedesca, che nei fatti ha subìto la bocciatura del socialista Frans Timmermans, il candidato inizialmente sostenuto insieme al presidente francese Macron.
A proporre questa lettura è Giovanni Orsina, ordinario di storia comparata dei sistemi politici europei e direttore della Luiss School of Government. “Sicuramente il principale vincitore è Macron – afferma il docente – ma dubito che da solo riuscirà a spingere un’agenda ambiziosa per l’Europa”.
Qual è il bilancio complessivo?
Premesso che la nomina di von der Leyen dovrà essere ratificata dall’Europarlamento di Strasburgo il 16 luglio, si può affermare che l’asse politico – composto da popolari, socialisti e liberali – e l’asse geografico franco-tedesco hanno retto, seppur con grandi scricchiolii e grossi mal di pancia interni alla Germania. D’altra parte questo riflette l’esito delle urne, che ha decretato un ridimensionamento dei partiti tradizionali, ovvero popolari e socialisti.
C’è chi sostiene che in realtà la bocciatura di Timmermans sia stata una sconfitta solo apparente per Merkel. Cosa ne pensa?

GIOVANNI ORSINA
È naturalmente possibile che la Cancelliera abbia scelto di appoggiare strumentalmente il candidato olandese per dare un messaggio interno ai suoi alleati di governo. Resta il fatto che in politica le percezioni contano e l’operazione nel suo complesso mi sembra debole. Timmermans era lo Spitzenkandidat, si era presentato agli elettori. Von der Leyen è un ministro tedesco, ma non è una figura di primo piano.
Che messaggio si dà agli elettori con questa scelta?
Che contano ancora gli Stati nazionali e che il voto per il Parlamento europeo è soltanto uno dei parametri, e non il più importante. Personalmente ritengo che, fino a quando la Germania non affronterà il dopo-Merkel, anche in seno all’Europa cambierà poco o nulla. La Bce adotterà una politica espansiva in linea con quella di Mario Draghi e la Commissione europea continuerà a fare il “cane da guardia” dei conti con un approccio tollerante, ma non troppo, e sempre nel rispetto dei vincoli che restano stringenti. Quello che mi preoccupa è un altro aspetto.
Quale?
Abbiamo visto che le ultime elezioni si sono svolte all’insegna della contrapposizione tra europeisti ed euroscettici. Entrambi gli schieramenti si sono fatti promotori del cambiamento ma nessuno di loro ha spiegato quale fosse il proprio progetto. Inoltre gli stessi euroscettici, benché siano cresciuti e possano teoricamente raggiungere insieme il 25% del Parlamento, sono diversi rispetto al passato. Sono, per così dire, “euroscettici soft”, in quanto nessuno sostiene più l’uscita dall’Unione europea, ma propendono per una revisione in senso intergovernativo. Il caso Brexit insegna.
Il vero problema, a mio avviso, sono le fratture territoriali che si stanno producendo in Europa. C’è una lega anseatica storicamente schiacciata sulle posizioni tedesche, il gruppo dei paesi mediterranei e poi quello di Visegrád. Al centro del continente troviamo una potenza, la Germania, che non è in grado di esercitare una vera leadership e per la quale, tutto sommato, la situazione attuale è confacente.
Può spiegare in che senso?
La Germania è una potenza soddisfatta. Attraverso l’Unione europea beneficia dell’apertura ai mercati internazionali, di una moneta forte ma non troppo e l’allargamento a est ha risolto il problema storico della sua sicurezza geopolitica. Soltanto una gravissima crisi europea potrebbe risvegliare nei tedeschi la convinzione che modificare l’attuale situazione in una direzione maggiormente europeista, per non dire federalista, è nel loro interesse nazionale. Rileggiamo la storia: “l’impero americano” in Europa nacque all’indomani della Seconda guerra mondiale con il piano Marshall, uno straordinario atto di generosità nei confronti di quei paesi – Italia e Germania – che fino a un momento prima avevano imbracciato le armi contro i soldati americani.
È così che si costruisce un’egemonia e in base agli attuali equilibri non intravedo altre possibilità di rilancio del progetto europeo.