L’industria alimentare viene da un anno caratterizzato da un aumento di produzione del +1,1% e da una crescita dell’export del +3,4%. Entrambe le variazioni sono risultate in flessione rispetto al 2017, ma sono state premianti rispetto a quelle messe a segno, in parallelo, dal manifatturiero italiano nel suo complesso.
Le vendite alimentari sul mercato interno hanno registrato un +0,6% in valore e un -0,5% in volume, inanellando l’ennesima stagnazione. Ad essa si è associato un fenomeno sempre più evidente: la polarizzazione dei consumi, con la crescita dei segmenti low cost e premium, e il progressivo schiacciamento della fascia di acquisto centrale, a seguito del destabilizzante deterioramento del ruolo socio-economico della classe media. La perdurante debolezza del mercato alimentare è stata sottolineata dalla spinta del canale dei discount alimentari, che nel 2018 ha chiuso con un +4,4% in valore.
Le previsioni per l’anno in corso del settore sono intonate, perciò, a grande cautela. Nel mercato interno la fiducia rimane modesta. E’ significativa, in questo senso, la ulteriore spinta registrata, nel gennaio scorso, dai discount alimentari, che ha raggiunto il record di incremento tendenziale, con un +6,2% sullo stesso mese dell’anno precedente.
La forte frenata del Pil emersa in chiusura 2018, che si protrarrà per almeno tutto il primo semestre 2019, non consentirà di uscire dalla stagnazione. Il calo del -2,7% degli investimenti privati previsto nel 2019 è forse l’elemento più critico del panorama congiunturale, anche perché fa seguito agli aumenti fra il +3% e il +5% dell’ultimo biennio.
L’atteso effetto delle misure governative (quota 100 e reddito di cittadinanza, che andranno comunque a regime nel 2020) è ampiamente contrappesato dal clima di incertezza e di scarsa fiducia sul Paese che aleggia fra gli operatori e nelle famiglie. Non a caso, questo clima sta innescando un incremento prudenziale della propensione al risparmio da parte delle famiglie, con conseguente, ulteriore indebolimento della domanda. Mentre la debolezza dell’inflazione, attesa nel 2019 sul +0,9% dopo il +1,2% dell’ultimo biennio, rappresenta un altro sintomo dell’accresciuto pallore congiunturale del mercato.
Il Paese e il settore alimentare sono appesi perciò a un solo “driver” espansivo: l’export. E se, da un lato, ciò è stimolante, dall’altro è squilibrante per il sistema.
Occorrerebbe un forte impulso anticiclico degli investimenti pubblici, col conseguente innesco di incrementi occupazionali e di capacità di acquisto. Ma le risorse notoriamente sono esigue, fortemente drenate da manovre cardine, come quota 100 e reddito di cittadinanza, prive di apprezzabili effetti anticiclici, nonché dalla maggiore spesa per interessi legata a un debito pubblico che continua a lievitare e che sopporta uno spread superiore di oltre 100 punti a quello del 1° trimestre 2018.
Il settore infine, nello specifico, è preoccupato per il rinnovo del contratto di categoria, in scadenza il novembre prossimo. La bozza di piattaforma, che i sindacati stanno sottoponendo ai lavoratori nel percorso di assemblee, prevede un aumento retributivo di 205 euro lordi sull’arco di quattro anni e ulteriori aggravi sul fronte del welfare. Essa appare come una irrealistica fuga in avanti. Occorre muoversi, invece, tenendo ben presenti due fattori: l’oggettivo contesto economico del settore e del paese, e le regole della contrattazione collettiva stabilite dall’Accordo interconfederale del marzo 2018. Il rinnovo contrattuale è un impegno fondamentale, che deve ritrovare il clima costruttivo e responsabile che l’ha animato nelle scadenze precedenti. Non è proprio epoca, questa, per cedere a pericolosi velleitarismi.
Con un mercato interno ancora stagnante c’è cautela nelle stime per il 2019. La chiave è puntare sull’export che nel 2018 è cresciuto del 3,4% sull’anno precedente