“In cinquant’anni di lavoro non mi era mai accaduta una cosa del genere. Noi trattiamo l’acciaio e in passato i rincari sono stati al massimo nell’ordine del 10%. Oggi i prezzi sono schizzati del 60-70%. In tutto il mondo. Mai visto in vita mia”. A parlare è Nicola Giorgio Pino, imprenditore del settore metalmeccanico alla guida del Gruppo Proma, attivo nella produzione di componenti per il settore automotive. Una realtà importante del panorama nazionale e ancora di più per il Mezzogiorno, visto che gli stabilimenti dell’azienda in Italia sono dislocati principalmente nella provincia di Caserta. Ma nel caso del Gruppo Proma si tratta di un nome di riferimento anche all’estero, in quanto le strutture metalliche per sedili nelle quali l’azienda è specializzata entrano nel processo produttivo di diverse case automobilistiche. In questo modo si spiegano i dieci stabilimenti distribuiti fra Marocco, Spagna, Polonia, Serbia e – oltreoceano – in Argentina, Brasile e Messico.
“Abbiamo cominciato a registrare i primi rincari nell’ultimo semestre dello scorso anno, ma la botta è arrivata con il primo e il secondo trimestre di quest’anno – racconta Pino –. Questo ha determinato un continuo stop & go nella produzione, contro il quale possiamo fare ben poco dal momento che non soltanto le materie prime costano di più, e nel nostro caso vanno inclusi anche i rincari delle materie plastiche, ma spesso scarseggiano oppure non si trovano”.
Il Gruppo Proma acquista principalmente dalle acciaierie, Arcelor Mittal, ThyssenKrupp, Gruppo Arvedi per fare qualche esempio, oppure da grossi importatori che si riforniscono in Cina e in Turchia. “Certo – commenta l’imprenditore – è chiaro che se non può operare una realtà come Ilva spariscono dal mercato altre 6 o 7 milioni di tonnellate di acciaio e i primi a soffrirne siamo noi. A tutto ciò, poi, si aggiunge anche il rincaro dei noli marittimi. Il trasporto su nave dei container è quadruplicato e questo naturalmente va ad incidere sui costi finali. Una parte li assorbiremo noi come azienda, una parte dovremo trasferirli al cliente e quindi sul prezzo di vendita dei nostri prodotti. Ma è molto difficile, è una battaglia continua”.
Sul fronte delle previsioni Nicola Giorgio Pino resta cauto: “Spero che questa corsa al rialzo finisca presto, ma sono convinto che non torneremo ai prezzi del 2019/2020, quando l’acciaio costava 550 euro per tonnellata. Oggi siamo arrivati a 1.100/1.200 euro. Adesso c’è da augurarsi che si stabilizzi e che l’inflazione non vada alle stelle”.
La preoccupazione dell’imprenditore, però, va ben oltre la congiuntura attuale. Settantadue anni, di cui più di 50 spesi sul campo, conferiscono al presidente del Gruppo Proma l’autorevolezza per fare qualche ragionamento più approfondito non soltanto sulla questione del rincaro delle materie prime, ma anche sulle prospettive per il settore automotive. Nicola Giorgio Pino, infatti, ha vissuto con la sua azienda tutt’altra fase storica e la crescita del Gruppo Proma, che gli è valsa peraltro la nomina a Cavaliere del Lavoro nel 2016, è l’esempio di una azienda che, nata piccolissima nel 1980, – “un capannone di 200 metri quadrati con tre presse sgangherate dove lavoravo io insieme con cinque operai” – ha saputo espandersi a poco a poco fino a diventare oggi una grande impresa da 700 milioni di fatturato, 26 stabilimenti, 4mila dipendenti, di cui 1.500 in Italia.
Per l’imprenditore, infatti, “il futuro dell’automotive in Italia è a rischio”. “Avere delegato la produzione di componenti elettronici a semiconduttori alla Corea del Sud o in generale al Sudest asiatico è stato un errore – commenta il Cavaliere del Lavoro –. Con il lockdown è esplosa la domanda di personal computer e tutti i componenti sono stati dirottati verso questo settore sicché quando siamo ripartiti non c’erano più scorte”.
Oggi il problema grosso è la parte elettronica, che costituisce una parte significativa dell’ossatura del “prodotto automobile”, vista la dotazione di strumenti e applicazioni che necessitano di semiconduttori per funzionare. “Con la pandemia ci siamo rimessi a produrre mascherine in Italia, ma fare microchip è una cosa più complessa e se si perde il know how ci vogliono anni per recuperarlo. Un indirizzo europeo, non solo italiano, nei settori strategici serve. Se si mantiene il 30/40% della produzione in Europa, all’insorgere di un problema ci sarebbero gli strumenti e le ‘intelligenze’ per risolverlo”.
È per questo motivo, chiediamo, che per il suo gruppo non ha mai messo in discussione gli stabilimenti in Italia? “Certamente. La mia regola era questa: tutto quello che serve in Italia lo faccio qui, ciò che è in più lo produco all’estero seguendo il mio cliente. Ed è così che siamo cresciuti. Ma bisogna avere una visione e fare una pianificazione industriale. Oggi in Italia si producono circa 500mila vetture all’anno, siamo il settimo produttore europeo e il 19esimo nel mondo. All’inizio degli anni Novanta eravamo il secondo paese in Europa e il quinto al mondo. Se restiamo fermi siamo destinati a scomparire”, conclude.