“Racconteremo la verità. Non diremo al popolo degli imprenditori che l’Italia è un luogo dove conviene fare impresa, né che siamo un paese normale. Diremo invece che dobbiamo fare i conti con quello che c’è e spiegheremo come crescere in un contesto così complicato”.
Alberto Baban è pragmatico. Non si dilunga nel commentare lo stato di recessione certificato a settembre dall’Ocse e dal Centro Studi Confindustria (“nei prossimi mesi le risorse italiane saranno modeste e probabilmente l’Europa concederà pochi margini di manovra sui conti pubblici”), pone piuttosto un aut aut: accettare questa situazione o provare a cambiarla? La seconda, non c’è dubbio. “Per questo motivo – spiega – dovremo attivare tutte le forze in campo, usare tutti gli strumenti possibili”. E uno di questi è il XIV Forum di Piccola Industria, “Innovare è l’impresa”, organizzato in collaborazione con Confindustria Campania e con l’Unione Industriali di Napoli nella città partenopea il 3 e 4 ottobre.
Perché ha scelto di dedicare il Forum, il suo primo da presidente dei piccoli, al tema dell’innovazione?
Perché l’innovazione è una leva di crescita e tale resta anche in un contesto difficile come quello italiano. Le imprese che hanno scelto questa strada hanno già dimostrato che è un’idea vincente. Noi vogliamo portarle al Forum e lasciarle raccontare la loro esperienza affinché siano di stimolo per le altre.
Non si parlerà solo di innovazione tecnologica, ma di innovazione in senso più ampio.
Esatto. L’innovazione è l’applicazione della ricerca. Quando l’innovazione incontra il manifatturiero rende il prodotto – o il processo – più fruibile, più accattivante, più aderente a ciò che vuole il mercato.
Naturalmente se non c’è ricerca, non ci può essere innovazione, ma se la ricerca non viene applicata resta in accademia o ovunque venga realizzata.
Piccola Industria presenterà delle proposte?
Certamente, in particolare vogliamo raccontare il progetto “PMI innovative”. Fino ad oggi governi e mass media hanno legato il concetto di crescita alle start up, nella convinzione che favorire la nascita di nuove aziende, che andassero a sommarsi a quelle preesistenti, determinasse in automatico una crescita economica.
In realtà questo ragionamento non tiene conto di due aspetti: il primo sono le enormi difficoltà di sopravvivenza delle startup; il secondo è che tra le pmi italiane – ricordiamolo, oltre il 90% delle imprese – esiste una fetta significativa di aziende con caratteristiche innovative notevoli, che possono essere oggetto di politiche analoghe a quelle per le startup. Noi vogliamo agire proprio su queste, le cosiddette “PMI innovative”.
Come?
Modificando i vincoli civilistici e fiscali che oggi scoraggiano queste imprese a iscrivere a bilancio le spese di ricerca e sviluppo capitalizzabili (spese in studi e ricerche, capitale umano, macchinari), facendole apparire scarsamente innovative.
Lasciando emergere l’innovazione implicita, potrebbero usufruire invece di agevolazioni al pari delle start up nonché avere un accesso automatico ai finanziamenti europei e nazionali. Ma non solo. Introdurre una sorta di “certificazione di PMI innovativa” avrebbe un altro effetto molto importante: offrirebbe una platea sicura e qualificata di soggetti sui quali investire sia agli istituti di credito, sia ai fondi di private equity.
Crediamo che anche il governo avrà interesse a mettere a punto politiche specifiche a supporto di queste pmi, rassicurato da una ragionevole certezza nel ritorno dell’investimento. D’altronde stiamo parlando di imprese che in prospettiva possono rappresentare, quando non lo sono già, veri e propri driver di crescita. Sono aziende che non vivono per sé stesse, ma sono a capo di ecosistemi vincenti.
In attesa che questo progetto vada in porto, in cosa gli imprenditori possono innovare da subito?
Un primo suggerimento è l’adozione del lean thinking, che non si applica ai soli processi produttivi ma coinvolge tutta l’azienda nella sua globalità.
Nato in Giappone e praticato soprattutto dalle aziende dell’automotive, il lean thinking spesso è stato visto solo come uno modo per ridurre i costi. Non è così, noi lo presentiamo come una grande strategia di efficentamento, che consente all’azienda di produrre esattamente cosa il cliente vuole. Un servizio che pochi riescono a dare.
Una seconda azione?
Valorizzare gli asset intangibili, a cominciare dal brand. Significa essere capaci di individuare il proprio valore aggiunto e farselo riconoscere dal mercato. Per molte aziende rappresenta un cambio di passo enorme, che migliora la produttività e la competitività.
L’innovazione dovrebbe riguardare anche le relazioni fra imprenditori?
Assolutamente sì. Per la semplice ragione che oggi, nel mondo globalizzato, il problema principale è l’accesso al mercato.
Un’azienda non si definisce piccola in senso assoluto, ma si dimostra tale – e dunque inadeguata – nella misura in cui non riesce a raggiungere il mercato che le interessa. Si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma. Ne consegue che se l’imprenditore constata questa criticità, con onestà intellettuale deve essere disposto a fare aggregazioni, joint venture, fusioni, acquisizioni. In poche parole, tentare tutti quegli strumenti che gli consentirebbero di riconquistare un assetto adatto al nuovo contesto competitivo. Peraltro, in un periodo di allarme come quello che stiamo vivendo, spesso questa è una scelta fatta non per crescere, ma per mantenere in vita il proprio business.
Nell’ambito del programma Horizon 2020 sulla ricerca e l’innovazione, l’Europa ha lanciato lo Strumento PMI. Tantissime le proposte italiane presentate,436, poche quelle che hanno superato la prima selezione, 20. Cosa ne pensa?
Non credo esista una corrispondenza tra la mancata selezione dei progetti e l’identità reale delle nostre imprese. Credo piuttosto che non abbiamo ancora capito l’importanza dello strumento europeo.
Superare la selezione di un bando comunitario, significa non soltanto godere di un importante accompagnamento finanziario a supporto del propria idea, ma è la prova che l’impresa selezionata è stata capace di raccontare sé stessa, è stata in grado cioè di valorizzare i propri asset intangibili.
Il fatto che non siamo ancora pronti è evidente, ciò tuttavia dipende anche dalla storia delle nostre fabbriche, nelle quali gli imprenditori erano soprattutto ottimi artigiani capaci di eseguire bene il loro lavoro. Oggi non basta più e dobbiamo cambiare in fretta. A questo proposito siamo convinti che il metodo migliore non sia rivolgersi ai consulenti, quanto piuttosto emulare chi fa bene. Abbiamo bisogno, cioè, di casi positivi da raccontare agli imprenditori per mostrare loro che si può fare, che non è così complicato e soprattutto fare capire che le loro aziende hanno tutti i requisiti per accedere a questi programmi. Confindustria ha e avrà una grande responsabilità nel sapere coinvolgere queste imprese.