La salute è la seconda priorità per i cittadini europei. È quanto emerge da recenti indagini dell’Eurobarometro (2024), che hanno evidenziato come la salute sia addirittura la principale questione di politica economica in un gruppo relativamente ampio di paesi, quali Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Portogallo e Ungheria. Si tratta di un insieme eterogeneo di paesi, se non altro dal punto di vista delle risorse spese per la salute pubblica: in Francia sopra il 10% del Pil, in Grecia, Irlanda e Ungheria intorno al 5%. Eppure, solo pochi anni prima, nel 2019, i temi della salute (e della sanità) erano esclusi dalle prime dieci questioni prioritarie per la politica economica. Crescita economica, lotta alla disoccupazione giovanile, immigrazione e cambiamento climatico tenevano banco in cima alle preoccupazioni dei cittadini europei.
Puntuale nel leggere i fenomeni socio-economici, la Rivista di Politica Economica ha scelto dunque con lungimiranza di occuparsi di sanità per il primo numero del 2024, intitolato “La salute dei sistemi sanitari. Evoluzioni e prospettive future”. Oltre 250 pagine, ricche di grafici e tabelle, per provare a orientarsi in modo consapevole in una materia quanto mai complessa e articolata. Ne abbiamo parlato con Stefano Manzocchi (nella foto in alto), Prorettore per la Ricerca e la Terza Missione della Luiss Guido Carli e direttore della rivista.
Professor Manzocchi, il Covid-19 ha riacceso i riflettori sul tema della sanità pubblica. È così?
Possiamo dire che la pandemia da Covid-19, affacciatasi a Wuhan in Cina alla fine del 2019, ha ribaltato completamente la prospettiva, ha cambiato l’ottica con la quale guardiamo a questo tema: dalla sanità solo come “costo sul quale risparmiare” alla sanità vista anche come “investimento sociale”.
In Italia si è scritto che sono stati i tagli di risorse finanziarie e di risorse materiali come posti letto e personale a rendere il sistema sanitario incapace di rispondere alla improvvisa crisi e alla conseguente pressione che questa ha generato sugli ospedali, ancora i principali fornitori di servizi sanitari. In pochi, invece, hanno ricordato che quelli definiti come “tagli” di risorse erano parte di un processo di ristrutturazione industriale che riguardava da tempo tutti i sistemi sanitari dei paesi avanzati, che stavano cercando di prepararsi per gestire un’epidemia silenziosa di malattie croniche non trasmissibili.
Quando si parla di sanità pubblica, tuttavia, la questione del sottofinanziamento e quella del regionalismo vengono spesso additate come cause di debolezza. Quanto c’è di vero in questi giudizi?
Il volume di risorse destinato al settore è un argomento di facile presa politica. Si afferma genericamente che la sanità pubblica italiana sia largamente sotto-finanziata: il confronto è con partner europei come Francia e Germania, che hanno superato il 10% del Pil in termini di spesa, ma con un sistema differente rispetto al nostro, basato su assicurazioni sociali. Qualcuno si spinge fino a dire che il finanziamento del Ssn, oggi sotto il 7%, debba arrivare fra qualche anno a livelli simili ai due paesi dell’Europa continentale, tralasciando di spiegare che tre punti di Pil equivalgono oggi a 60 miliardi e una manovra del genere equivarrebbe ad aumentare di circa il 50% le risorse oggi destinate alla sanità, con ovvie conseguenze sugli equilibri già difficili della finanza pubblica.
L’altro filone di pensiero – come lei giustamente ricorda – riguarda la governance dei sistemi sanitari e attribuisce all’eccesso di regionalismo le conseguenze nefaste della pandemia. Anche in questo caso, tuttavia, va ricordato come la legislazione vigente già attribuisse al governo nazionale tutti i poteri necessari per una gestione centralizzata delle politiche di contrasto epidemico.
Per quanto riguarda il progetto di aumentare gli spazi e le forme di autonomia previsto dall’articolo 116 della Costituzione, si continuano ad attribuire le colpe delle diseguaglianze sociali (nell’accesso ai servizi e nei livelli di salute) alle politiche di decentramento statuite con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001, ma ci si dimentica di dire che il decentramento amministrativo è inscritto nella stessa legge fondante del Ssn e il decentramento funzionale parte con la riforma del 1992, mentre il decentramento fiscale – se si escludono gli anni tra il 1997 e la metà dei primi Duemila – è rimasto largamente sulla carta.
E quindi?
La pandemia, insomma, è stata utilizzata come un possibile grimaldello per tornare indietro rispetto a politiche di ristrutturazione del sistema sanitario condivise in passato: macché riduzione del ruolo degli ospedali a favore dei servizi territoriali, servono più ospedali (e, forse, anche più servizi territoriali) per affrontare i casi gravi delle pandemie; macché regioni a gestire la sanità, serve lo Stato, che è l’unico garante dell’eguaglianza territoriale.
Sulla sanità, insomma, pesano ancora troppi pregiudizi. A dispetto delle flebili voci fuori dal coro, entrambe le tesi, ovvero l’impatto dell’austerity e del regionalismo, sono state facilmente accolte dall’opinione pubblica, che ha chiesto a gran voce maggiori risorse per il settore da un lato (imputando all’Ue e alle sue regole fiscali l’incapacità dei paesi membri di investire nel settore sanitario) e un ri-accentramento delle funzioni che riguardano la tutela della salute in capo allo Stato centrale dall’altro, contribuendo a fare della salute pubblica una priorità di politica economica in questi tempi incerti.
In relazione all’invecchiamento costante della popolazione, come deve cambiare l’erogazione dei servizi sanitari?
Anzitutto, anche se può apparire superfluo, vale la pena di ricordare sempre come la definizione della governance ottimale dovrebbe basarsi su argomenti tradizionali quali gli spillover e i rendimenti di scala delle politiche sanitarie, nonché le preferenze politiche dei cittadini delle diverse comunità sub-nazionali. L’assenza di spillover e modeste economie di scala spingono a considerare ottimale il decentramento della funzione e l’allocazione a livelli di governo più vicini ai cittadini, quanto più poi le diverse comunità si differenziano in termini di preferenze verso lo specifico servizio.
Nello specifico dell’impatto demografico, a fronte delle tendenze del nostro Paese e del conseguente aumento delle patologie croniche connesse all’invecchiamento della popolazione, il ruolo della medicina di famiglia è al centro dell’analisi del volume. Le malattie croniche richiedono un approccio assistenziale diverso dalla gestione delle patologie acute perché necessitano di interventi per periodi di lunga durata e una forte integrazione tra servizi sanitari e sociali, con investimenti in servizi residenziali e territoriali, che spesso in Italia non sono ancora né diffusi né distribuiti in modo uniforme sul territorio. L’invecchiamento della popolazione richiede un approccio integrato al benessere fisico, psicologico e sociale.
Dopo il varo del primo Piano Nazionale della Cronicità nel 2016, l’impatto della pandemia e la disponibilità di nuove risorse provenienti dal programma NextGen-EU hanno stimolato una rinnovata progettualità per rifondare le basi dell’assistenza territoriale nell’ambito del Ssn recentemente disegnata dal DM 77/2022, che ha introdotto le Case della Comunità e gli Ospedali della Comunità.
Alla luce di questa evoluzione, gli interventi necessari vanno dalla riforma del percorso formativo per i medici di medicina generale o di una migliore ponderazione della lista assistiti, a riforme che richiedono scelte più radicali, come un maggiore ancoraggio dei pazienti assistiti dal medico di famiglia al territorio afferente oppure la creazione di un terzo livello della medicina di famiglia rivolto alla popolazione più anziana.
A differenza di quanto comunemente si pensi, secondo i dati presentati nel volume il numero dei medici in Italia è in linea con quello di Francia e Germania; a mancare, invece, sono gli infermieri. Come si correggono le storture relative alla disponibilità di professionalità necessarie per la domanda di salute del Paese?
È di poche settimane fa l’allarme lanciato nuovamente dai vertici degli ordini professionali degli infermieri, che sottolineano sia il mismatch e la carenza di operatori, sia i bassi stipendi. Queste evidenze potrebbe essere un sintomo ulteriore delle difficoltà del nostro sistema sanitario di sviluppare cure territoriali orientate al trattamento delle cronicità, rispetto alla impostazione centrata sugli ospedali discussa in altri contributi del volume.
La definizione dei fabbisogni dovrebbe essere guidata dalla definizione del sistema sanitario che si vuole realizzare: un sistema meno fondato sugli ospedali e più sulle cure territoriali richiede medici con alcune specializzazioni e non altre e, soprattutto, infermieri. Il mismatch nel mercato del lavoro dei servizi sociosanitari si concretizza in un eccesso di domanda rispetto all’offerta di lavoro di infermieri e di medici specializzati in alcune discipline come l’emergenza e urgenza, l’anestesia e rianimazione o la medicina territoriale.
Possono contribuire a spiegare questi disequilibri le possibilità di integrazione salariale offerte dalla libera professione, i rischi per la responsabilità medica e la possibilità di incorrere in violenze verbali e fisiche durante l’esercizio della professione, tutti fattori differenti per diverse specializzazioni che richiederebbero adeguate risposte. Non secondario è poi il tema delle politiche verso l’immigrazione sia altamente qualificata come nel caso di infermieri e medici, sia relativa a professioni di cura della persona.
In uno dei capitoli del libro si affronta il tema della qualità del management sanitario. Su quali aspetti è prioritario intervenire?
Regioni con modelli organizzativi formalmente simili mostrano valori molto diversi degli indicatori relativi agli interventi di cura, mentre emergono performance comparabili anche per regioni che hanno recepito in modo differente le linee di riforma del Ssn. È la qualità delle istituzioni, politiche e di mercato, e anche naturalmente del management dei sistemi ospedalieri che sembra determinare i miglioramenti nelle performance, e tale qualità dà conto anche dal persistente divario tra le regioni del Centro-Nord e quelle del Sud.
Abbiamo purtroppo poche informazioni sulle caratteristiche dei manager della sanità. Ma il solo fatto che sistemi organizzati diversamente producano sia risultati eccellenti, in alcuni casi, sia mediocri in altri, ci fa ritenere che la selezione del management sia cruciale. Adeguate capacità gestionali si configurano come un elemento complementare per far fronte alle richieste di assistenza sanitaria, in aggiunta alle strategie incentrate sull’aumento degli input di natura clinico-medica.
Le evidenze disponibili sulla formazione manageriale dei direttori generali sono frammentate e rispecchiano il frazionamento del Ssn in differenti modelli sanitari regionali. Più informazione circa le caratteristiche individuali dei componenti della direzione strategica (che includono, tra l’altro, età, genere, retroterra educativo, eventuale esperienza politica, tenure ed esperienza) e sul ciclo politico con cui la direzione si confronta durante il mandato, potranno consentire una migliore analisi delle relazioni tra capacità manageriali, attributi personali, formazione e performance ospedaliere.
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