L’epoca d’oro della “globalizzazione rampante” è finita. La promessa di una crescita diffusa accompagnata dal contenimento delle diseguaglianze sociali sembra tradita. È davvero così?
Gli anni ai quali fa riferimento sono quelli iniziati con la riunificazione tedesca (1990), il crollo dell’Unione Sovietica l’anno dopo, il Trattato di Maastricht del ‘92 sino ad arrivare all’ingresso della Cina nel Wto e all’allargamento ad Est dell’Unione europea tra il 2004 e il 2007. Sono tappe positive di un percorso che, tuttavia, nel suo dispiegarsi ha visto crescere le differenze tra centro e periferia, e quindi fra i grandi nuclei urbani specializzati nei servizi avanzati e le aree più interne, che si sono ritrovate spiazzate dalla ricollocazione di filiere senza poter convertirsi o riposizionarsi velocemente in altri settori.
Come fa notare Gianmarco Ottaviano ‘il libero scambio promosso dall’Ue ha sì generato prosperità e potenzialmente lo ha fatto per tutti, ma nei fatti non tutti sentono di averne goduto’. La crisi finanziaria del 2007 e quella dei debiti sovrani del 2011 hanno messo ulteriormente in difficoltà i governi dei paesi più fragili e la risposta che si è data per fronteggiare l’emergenza ha privilegiato i trasferimenti – condivisibili in una situazione di difficoltà ma non sufficienti – a scapito degli investimenti materiali e immateriali per la mobilità sociale e l’efficienza della Pubblica amministrazione.
Volendo fare un esempio, la Brexit è la reazione a queste tensioni crescenti, che non sono state intercettate e contenute in anticipo.
A questa situazione già complessa si è aggiunta la pandemia. Come se ne esce?
Va detto che inizialmente i governi nazionali si sono mossi singolarmente con politiche di bilancio espansive finalizzate a potenziare i sistemi sanitari, preservare il tessuto produttivo da crisi di liquidità che potessero comprometterlo e aiutare le famiglie sostenendo la loro capacità di spesa.
È chiaro che anche in questo caso le differenti condizioni di partenza si sono riverberate sull’incisività delle misure. C’è stato chi ha potuto spendere di più, come la Germania, e chi invece ha pagato un maggior grado di frammentazione degli interventi, come l’Italia. Si ripropone quindi un dualismo tra i paesi del Centro Europa e i paesi mediterranei nel riprendere il sentiero dello sviluppo. Come ho scritto nella prefazione al volume, il piano Next Generation EU è rivolto ad evitare questa ulteriore polarizzazione, che potrebbe alimentare una nuova ondata di euro-scetticismo e nazionalismo.
Per l’Italia si apre una grande opportunità a patto di saper superare la proverbiale difficoltà del nostro sistema nel disegnare riforme di ampio respiro e di saper resistere alle degenerazioni clientelari che spesso si verificano nel corso del processo legislativo e amministrativo.
Cosa fare in concreto?
Marco Buti e Marcello Messori lo hanno indicato molto chiaramente nel loro contributo. L’Italia ha 3 compiti: preparare entro aprile il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che rappresenta la chiave di accesso al Recovery and Resilience Facility (RRF), ovvero il più importante programma dell’iniziativa europea Next Generation EU; incentrare quel piano su un pacchetto di riforme e investimenti “capaci di cambiare l’inerzia del Paese”; adottare una governance del piano che permetta di realizzare nei tempi previsti tutti i punti essenziali del Piano, in pratica completare gli impegni di spesa entro il 2023 e realizzare i progetti entro il 2026.
Lei è fiducioso?
Con il governo Draghi si apre una nuova fase, ma è ancora troppo presto per fare previsioni. Sul versante europeo cito la stessa espressione che ho adottato nella prefazione di Rpe: l’esperimento dell’Ue è ad un esame di maturità. I grandi temi sul tavolo spaziano dal mercato dei servizi digitali con il Digital Market Act e il Digital Services Act alla nuova politica industriale improntata all’innovazione tecnologica e alla sostenibilità con il Green Deal fino alla definizione di strategie comuni in tema di sanità, tassazione e finanza.
C’è tanto da fare e il futuro dell’Europa dipende dal consolidamento di queste traiettorie e dal successo del Next Generation Eu. La fiducia dei cittadini verso il progetto europeo passa inevitabilmente da qui.
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