Da qualche tempo al centro del dibattito sulle future prospettive dell’industria, la fa da padrone il grande tema dell’innovazione e, in particolare, di tutto ciò che ruota intorno alla cosiddetta quarta “Rivoluzione Industriale”, che passa sotto la denominazione di Industria 4.0.
Oggi la speranza per la ripresa, o meglio, per la rinascita del nostro Paese risiede nell’aspettativa che la fine della crisi, iniziata nel 2008, possa produrre nei prossimi anni un forte ritorno alla spesa da parte di nuovi ceti di consumatori e, in particolare, da parte di masse di consumatori benestanti, che andranno ad aumentare non solo nei paesi emergenti, ma anche in quelli avanzati come gli Stati Uniti.
L’auspicio per noi italiani è che questa ritrovata disponibilità globale alla spesa verso beni di largo consumo, ma che rispondano soprattutto a caratteristiche di alta qualità, avvenga il più in fretta possibile e nella maniera più diffusa, convinti come siamo, e a ragione veduta, che uno dei grandi trend verso i quali andrà a focalizzarsi questa rinnovata disponibilità all’acquisto sarà il made in Italy e, in particolare, quello che oggi passa sotto l’acronimo di Bbf, cioè il “bello e ben fatto” italiano.
Parallelamente quindi alla capacità degli imprenditori italiani di saper cogliere le nuove sfide e le opportunità di Industria 4.0, che in un mondo in continua mutazione imporranno anche il saper interpretare e comprendere i cambiamenti “dell’individuo consumatore”, per l’industria italiana sarà fondamentale saper investire e fare sistema per puntare in maniera strutturata sulle enormi opportunità che emergeranno dalla sempre più ampia richiesta di made in Italy, come identificazione di prodotti di alta qualità e rappresentativi di un inconfondibile stile di vita.
Dobbiamo riappropriarci della consapevolezza (nonostante il fenomeno della globalizzazione paia da tempo abbattere sistematicamente tutti i confini e le barriere di ogni tipologia, quasi in una rincorsa senza freni verso la totale standardizzazione dei consumi) che per il nostro Paese diventerà indispensabile rifocalizzarsi su quegli asset che hanno da sempre rappresentato le fondamenta del nostro successo.
Nello specifico: un patrimonio culturale immenso e non replicabile, un paesaggio unico nella sua bellezza, una immensa tipicità e varietà di prodotti agroalimentari, una vocazione manifatturiera che prende vita nei secoli scorsi dalle botteghe rinascimentali e via via, con il passare del tempo, ha spinto migliaia di artigiani con forti competenze in produzioni locali, a trasformarsi in validi imprenditori in grado di esportare prodotti in tutto il mondo.
Dal rapporto presentato su questo numero, dal suggestivo titolo “Esportare la Dolce Vita”, possiamo apprendere come ci si attenda nel quinquennio 2017/2022 una crescita del “bello e ben fatto” pari almeno al 20% rispetto ad oggi e, in determinate condizioni, tale crescita potrebbe addirittura toccare un 31%. Tradotto in numeri, questo 20% rappresenterebbe un valore di circa undici miliardi di euro; passeremmo così dai 59 miliardi attuali ai circa 70 del 2022.
Tutto ciò non è e non sarà certo frutto del caso o della fortuna, ma di un sistema di imprese e di una storia capace di portare a sintesi i due architravi della “cultura” e del “saper fare”, identificativi dell’intreccio vincente tra estetica e capacità tecniche e tecnologiche.
Per approcciare il nuovo consumatore sarà però altrettanto fondamentale un cambio di paradigma da parte dei nostri imprenditori, cambio teso a valorizzare i principi della sostenibilità da un punto di vista etico e ambientale. Sempre più spesso dovremo comprendere queste ineludibili esigenze, prendendo atto che nei mercati evoluti e con alta capacità di spesa, diventerà imprescindibile collegare al prodotto lo stile di vita del “bello e ben fatto” alla percezione di valori incentrati sul rispetto della persona e sull’ecosostenibilità.