Parlando di futuro non si deve dimenticare il passato: prima della metà del secolo scorso non si può parlare di un’Italia industriale. Come affermano molti economisti, l’Italia è ancora una nazione agricolo-silvo-pastorale, quando lo sviluppo del Paese, reduce dalla Seconda guerra mondiale, stimola la formazione di un acerbo, ma deciso, tessuto industriale. Il mercato è infatti carente di ogni bene e prodotto, la domanda è altissima, il costo del lavoro è molto contenuto e gli acquirenti si accontentano pressoché di tutto.
È al Nord dove crescono e si ramificano le prime realtà industriali, grazie soprattutto alla presenza di risorse economiche e territoriali più ingenti rispetto al Sud e comunque con una mentalità imprenditoriale più diffusa. Sono piccole e medie imprese a conduzione familiare le protagoniste di questa fase di industrializzazione dal volto frammentario, che si sparge per buona parte del nostro Paese dove la genialità italiana trova il successo sull’organizzazione aziendale. Padre, madre, figli si adoperano per gestire la “bottega” con l’aiuto di qualche dipendente fidato, in fondo come prima accadeva all’interno del podere. È quasi una naturale evoluzione, non traumatica, dal campo alla fabbrica, in funzione delle mutate esigenze del mercato.
Molte coltivazioni lasciano il posto allo stabilimento. Molti contadini abbandonano i campi per unirsi alle maestranze. Ha origine l’ondata migratoria dal meridione verso le principali città industrializzate del Nord come Milano e Torino, dove le possibilità di lavoro sono più alte, benché, se in Lombardia e in Piemonte la trasformazione del tessuto economico e sociale è abbastanza rapida, in altre regioni come in Veneto, non è così immediata. La seconda ondata dello sviluppo industriale nasce dalla ripetizione del modello precedente. Generalmente un tecnico o commerciale intraprendente incontra nella propria esperienza aziendale una collega che lavora nell’amministrazione. Uniscono le loro competenze e supportandosi vicendevolmente si spingono a rinnovare l’esperienza per costruire, a loro volta, una nuova azienda.
Cresce intanto la consapevolezza delle nuove categorie di lavoratori con tutte le implicazioni etiche e sociali che coloreranno gli anni avvenire fino ai giorni nostri.
Il modello familiare
Le imprese italiane, per una buona percentuale familiari e di piccole dimensioni, vivono sfide e opportunità. La competizione internazionale, insieme all’innovazione, impone alle aziende nuovi approcci gestionali, fra i quali emerge fondamentale il ricambio generazionale.
L’impresa a conduzione familiare è una struttura organizzata al cui vertice troviamo la famiglia, impegnata nelle diverse funzioni strategico-operative dell’azienda. Dalla dimensione della struttura e dal settore merceologico d’appartenenza dipendono naturalmente le responsabilità, i pesi e le relazioni.
Generalmente sono i familiari o i futuri eredi a occupare le funzioni chiave all’interno dell’azienda, limitando almeno nelle prime generazioni, lo sviluppo di una cultura manageriale al di fuori delle logiche di famiglia. I membri del gruppo si danno rigorosamente del tu. Un tu lontano dalla visione ampia e generica dei rapporti esplicitata dallo you inglese. Un tu dalla connotazione intima e confidenziale, che se da un lato snellisce i rapporti di lavoro accomunandoli con quelli familiari, dall’altro intacca la percezione di autorità e rispetto nei confronti delle figure dirigenziali.
È vero, comunque, che con il passaggio dell’attività alla seconda generazione (e ancor più alla terza e alla quarta), le logiche interne tendono a mutare in direzione di un tessuto aziendale internamente più manageriale, quindi “più estraneo”. In questo ambito un buon 25% delle imprese italiane dovrà presto affrontare questo “problema” che coinvolgerà il vertice aziendale nel rapporto più sensibile della gestione. Vengono ripresi temi organizzativi misti a sentimenti che non tutti sanno gestire nel modo corretto, proprio perché alle difficoltà manageriali si assommano emozioni che rendono le decisioni impegnative e sofferte. Molti imprenditori conoscono gli aspetti fiscali, legali, bancari, ma non tutti sono consapevoli che questo passaggio deve essere guidato da un metodo manageriale che tenga presente le aspettative dei padri come quelle dei figli, in una giustificata contrapposizione armonica.
Sarebbe un errore attendere i momenti del cambiamento “perché dovuto”, mentre diventa una ragione di successo anticiparli, per valutare le migliori azioni da applicare che sono fondamentali nella unicità dell’azienda. L’analisi da sviluppare non si limita al rapporto padre e figlio, ma si estende alla compagine familiare, che si allarga con il trascorrere della successione ai cugini e cognati. Questo spaccato italiano è assolutamente particolare e di difficile comprensione anche da studiosi che provengono da esperienze esterne.
Gestire un’azienda italiana e familiare richiede un’esperienza molto più complessa che condurre una grande multinazionale, dove le figure sono ben chiarite e non esistono tensioni e motivazioni familiari e affettive.
Il ricambio generazionale o continuità aziendale
Per superare queste evidenti difficoltà si propone un metodo utilizzato da anni, che prende in esame l’aspetto dell’imprenditore e del suo erede, inserito in scenari in continuo e turbinoso cambiamento.
Il metodo (al quale l’autore ha dedicato il volume Il ricambio generazionale nell’impresa familiare italiana, ndr) si completa in due fasi, la prima statica e la seconda dinamica. Quella statica prende in esame cento aree del profilo dell’imprenditore confrontandolo con quello dell’erede o degli eredi alla gestione, per valutare quali siano i punti di collegamento e quelli di antitesi. Infatti, due profili “coincidenti” non vengono valutati positivamente perché l’analisi, rivolta al futuro, necessita di nuove competenze. Allo stesso modo due profili troppo “contrastanti” non portano ad un vantaggio gestionale per la logica intelligente della continuità aziendale, definizione suggerita dal past president di Piccola Industria Carlo Robiglio nel riassumere il passaggio in una logica di fluidità.
Il metodo indicato risulta utile anche per valutare l’erede che presenta il miglior profilo alla successione, come il manager che viene scelto alla continuità aziendale. La seconda fase che opera in chiave dinamica propone un percorso di inserimento in step determinati, realizzato di comune accordo con l’erede. Si opera sui tre temi che formano la gestione aziendale: programmazione, esecuzione e controllo. L’erede si interessa in un primo momento della sola esecuzione, lasciando all’imprenditore le responsabilità della programmazione e del controllo. In un secondo tempo assume anche quella della programmazione mentre rimane all’imprenditore sempre il controllo, fino che prende in carico anche quest’ultimo, chiudendo il cerchio della gestione nell’assumersi tutta la responsabilità. In questo modo, le responsabilità aziendali sono state trasmesse armonicamente dal precedente imprenditore al futuro erede.
Prime conclusioni
Secondo una ricerca realizzata qualche tempo fa, il 51% degli imprenditori dichiara di avere incoraggiato i figli ad entrare nella gestione, il 43% mantiene un atteggiamento neutrale, mentre il 6% scoraggia con decisione i figli ad impegnarsi nell’azienda di famiglia. Informazioni che fanno pensare. Molte imprese familiari si trovano in difficoltà perché l’imprenditore non affronta con la dovuta intuizione e ragionevolezza il naturale processo di invecchiamento.
Continuando nell’analisi della ricerca, la stessa ha evidenziato che pochi imprenditori italiani pianificano la propria successione: solo il 7% dichiara di aver scritto alcune regole per semplificare il passaggio generazionale. L’analisi della ricerca e l’osservazione di numerose “storie d’impresa”, unite all’esperienza professionale di molti esperti, consentono di avere fiducia nel futuro: esistono molti giovani di valore e molti imprenditori che danno fiducia e consapevolezza alle nuove generazioni per un futuro di successo dell’impresa italiana in un mondo che cambia.
(L’autore è stato componente del Comitato Scientifico Consultivo
di Piccola Industria durante la presidenza di Carlo Robiglio)