
Fino a ieri parlavamo di SEO come di una disciplina consolidata. Ottimizzare un sito per i motori di ricerca significava presidiare le parole chiave giuste, curare la struttura dei contenuti, ottenere link di qualità. Oggi questo paradigma non basta più. Il modo in cui le persone scoprono le informazioni online sta cambiando radicalmente e lo fa a una velocità che, almeno in Italia, sta cogliendo impreparate moltissime imprese.
Benvenuti nell’era della discoverability. Un’era in cui i motori di ricerca tradizionali stanno cedendo spazio a motori generativi, agenti conversazionali e intelligenze artificiali che non si limitano a indicizzare contenuti ma li sintetizzano, li selezionano e li interpretano per conto dell’utente. Questo nuovo scenario ha già un lessico tecnico: GEO (Generative Engine Optimization), AEO (Answer Engine Optimization), LLMO (Large Language Model Optimization). Termini che possono sembrare distanti ma che, nella sostanza, parlano di una cosa molto semplice: non basta più essere visibili online, bisogna essere scelti da un’intelligenza artificiale. E per riuscirci, serve ottimizzare la propria presenza in modo completamente nuovo.
Facciamo un esempio. Se oggi una Pmi del settore food cerca un software gestionale e pone la domanda a un assistente come ChatGPT o Gemini, non riceverà un elenco di link come avviene con un motore di ricerca. Otterrà invece una risposta costruita, contestualizzata e sintetica. E dentro quella risposta ci sarà spazio solo per pochi brand: quelli che hanno saputo rendere la propria offerta “leggibile e utilizzabile” da un motore generativo. Gli altri, anche se validi, resteranno invisibili. L’imbuto, insomma, si è ristretto ancora di più. Se prima la sfida era farsi trovare tra milioni di risultati su Google, oggi è entrare in una sola risposta.
Ogni volta che poniamo una domanda a un sistema di Intelligenza artificiale — ad esempio, chiedendo quale sia il fornitore più adatto per un certo servizio — il processo che porta alla risposta si svolge in modo molto diverso rispetto alla ricerca tradizionale. Non ci troviamo più davanti a una lista di risultati da esplorare. Non clicchiamo su un link, non navighiamo tra i siti, non confrontiamo diverse alternative leggendo pagine diverse. Tutti questi passaggi, che prima rappresentavano il cuore del processo di scoperta, vengono saltati. Questo significa che la selezione avviene prima ancora che l’utente abbia la possibilità di esplorare. È la macchina che decide chi è visibile e chi no. Ed è per questo che oggi non basta più “essere presenti online”: bisogna essere presenti in modo tale da risultare scelti dai sistemi che generano le risposte. Questo cambia tutto. Succede sempre più spesso all’interno di strumenti alimentati da Intelligenza artificiale: chatbot interni che supportano i dipendenti nelle aziende, sistemi di knowledge management che sintetizzano documenti e informazioni complesse, report generati automaticamente da piattaforme di analisi, assistenti vocali, o portali B2B che utilizzano modelli linguistici per proporre fornitori o soluzioni.
È la macchina che decide cosa è rilevante. Non si tratta più di scrivere contenuti in modo da scalare una SERP (Search engine results page, ndr), ma è necessario strutturarli affinché siano interpretabili e sintetizzabili da un modello linguistico. Serve coerenza semantica, autorevolezza e chiarezza. E serve una reputazione online che parli per noi: perché le IA selezionano le fonti, premiano chi ha credibilità e ignorano chi non lascia traccia.
Se le grandi aziende stanno sperimentando applicazioni di Intelligenza artificiale in quasi tutti i comparti strategici (dalla finanza all’energia, dalla manifattura alla grande distribuzione), solo l’8% delle Pmi ha progettualità IA attive e il 14% sta valutando iniziative. Oltre il 40% non ha alcun progetto in corso, né interesse dichiarato. Il divario con le imprese di maggiori dimensioni è evidente e rischia di diventare strutturale. Anche perché, in molti casi, le Pmi non dispongono internamente delle competenze necessarie per affrontare questo cambiamento. Il primo passo da fare per ogni impresa, piccola o grande, non è acquistare una licenza o integrare un chatbot. È capire dove si è, come si appare agli occhi degli algoritmi.
Serve un assessment approfondito della propria presenza online, dei contenuti e delle fonti che parlano del brand. Solo così è possibile capire quanto si è già “visibili” per una macchina e quanto invece occorre ancora lavorare per diventarlo. Occorre ripensare la propria presenza online in chiave di coerenza semantica, autorevolezza della fonte, qualità dei dati in modo da farsi includere nelle risposte generate da un’intelligenza. E chi non inizia a costruire oggi questa visibilità nuova, rischia domani di non esistere affatto.
Nota sull’autore

RAFFAELE BIFULCO
Raffaele Bifulco è co-fondatore e managing director di NEWU, soft infrastructure consultancy. Laureato in Estetica e con un master in Management e marketing presso la Luiss Business School, Bifulco ha iniziato la sua carriera nell’industria culturale come communication specialist del Museo MAXXI di Roma. Con NEWU e nel suo precedente ruolo esecutivo nell’industria dei media, ha lavorato per clienti come Google, Prada, Sky, Amazon, Netflix, Ferrero, Samsung e Spotify, guidando sia progetti di comunicazione a livello globale che team dedicati.
Collabora con l’Università Cattolica del Sacro Cuore e la Nuova Accademia di Belle Arti, tenendo corsi di marketing, comunicazione e project management. Inoltre, è mentor per il programma di accelerazione startup dell’Università Bocconi, Bocconi 4 Innovation.