

“FRONTE DI SCAVO” DI SARA LOFFREDI
Sara Loffredi (in foto) è nata a Milano nel 1978. Ha pubblicato per Einaudi, Piemme, Rizzoli e molti suoi racconti sono stati ospitati su riviste e opere collettanee. Il suo ultimo romanzo Fronte di scavo (Einaudi 2020) racconta di una delle più grandi operazioni di “chirurgia geografica” della storia, lo scavo del tunnel del Monte Bianco, e ha vinto il Premio dei Lettori nell’edizione 2021 del Premio Biella Letteratura e Industria.
Nei ringraziamenti di Fronte di scavo si legge: “Questa è una storia vera e allo stesso tempo non lo è”. Quali sono le difficoltà che si incontrano quando si sceglie come base di partenza per la narrazione un evento storico ben preciso?
Il grado di aderenza al dato storico è sicuramente il punto centrale: bisogna chiedersi se e quanto il narratore possa tradire la realtà di ciò che è avvenuto, per renderlo maggiormente funzionale alla storia che vuole raccontare. La risposta, a mio parere, non è univoca e ha a che fare con il rispetto, sia dell’evento da cui la narrazione prende le mosse, sia del lettore.
Il mio romanzo si snoda a partire da una delle più importanti operazioni di “chirurgia geografica” della storia, lo scavo del tunnel del Monte Bianco. Per scriverne ho dovuto prima di tutto documentarmi accuratamente sui luoghi, il progetto, la vita di cantiere. Una volta iniziata la scrittura non avrei mai potuto, ad esempio, collocare l’abbattimento dell’ultimo diaframma di roccia tra Italia e Francia, avvenuto nell’estate del 1962, in un altro anno. In questo senso il dato storico non può essere tradito.
Per lo sviluppo della narrazione, però, era importante che in cantiere ci fosse un personaggio femminile. Questa presenza, pur non fedele alla realtà, è stata inserita nel modo più realistico possibile, immaginando Nina come addetta alla mensa e realizzando per lei una casa nel paese vicino, dato che era – questo sì – davvero irragionevole che potesse dormire in cantiere. La forzatura del dato storico è stata dunque la minore possibile.
Si parla spesso dell’impresa visionaria – umana e ingegneristica – che è alla base del romanzo. Ma quale ruolo ha la montagna rispetto a ciò che le accade per volontà degli uomini?
La montagna è il luogo dove sono cresciuta e dove ho i ricordi d’infanzia più cari. Era fondamentale per me dare un ruolo narrativo a questa creatura vivente, che d’un tratto si ritrova centinaia di esseri umani che scavano in lei, disturbando il suo sonno millenario, e decide di scrollarseli di dosso con una valanga che ha realmente distrutto il cantiere nella primavera del 1962.
Studiando i protagonisti di questa impresa sono rimasta affascinata dalla visione che hanno realizzato, scavando il tunnel stradale più lungo sotto la montagna più alta di sempre; allo stesso tempo, però, non potevo ignorare il luogo dove quell’opera veniva compiuta. Nel romanzo il Monte Bianco viene chiamato “La Regina Bianca” e credo sia un nome appropriato, per lei.
Qual è stato il personaggio più difficile da costruire e quello che si è evoluto attraverso la scrittura in maniera più naturale?
Il più complesso da immaginare è sicuramente stato Ettore, il protagonista della storia, l’ingegnere milanese che arriva in Valle d’Aosta con la volontà di sfruttare la più grande occasione lavorativa della sua vita e viene messo in crisi da una montagna inaspettata, che impara a conoscere anche grazie alle persone che la abitano. Il più facile, quello che ha preso subito forma e che ho amato moltissimo è Samiel, il rabeilleur, il guaritore valdostano che aggiusta le ferite di uomini e animali con le stesse mani sapienti.
(Articolo pubblicato nell’ambito della collaborazione con il “Premio Biella – Letteratura e Industria”)