Al netto della contesa fra Stati Uniti e Cina, si può parlare oggi di un generale ritorno al protezionismo?
Complessivamente direi di no. Le azioni intraprese negli ultimi anni da alcuni paesi rispondono all’obiettivo di contrastare oggettive distorsioni del mercato, quale è stata, ad esempio, l’eccesso di produzione di acciaio che ha caratterizzato la Cina sin dagli anni Duemila. Non potendo più essere smaltito sul mercato interno, questo, una volta esportato, ha contribuito ad abbassare notevolmente il prezzo su quello internazionale, causando problemi non soltanto negli Stati Uniti o in Europa, ma anche in india e altri paesi. Con la crisi economico-finanziaria, inoltre, si temeva un deciso aumento delle misure di difesa commerciale; c’è stato ma nei limiti di un incremento congiunturale, che non ci consente di affermare di essere entrati in una fase di protezionismo internazionale. in ogni caso tali misure sono state applicate in conformità alle regole del Wto, che permettono in determinate situazioni di procedere con limitazioni alle importazioni.
Come si misura il grado di protezionismo a livello internazionale?
Non esistono indicatori oggettivi. Vi sono, tuttavia, alcune organizzazioni – un esempio è la Banca mondiale – che misurano il numero di azioni protezionistiche applicate dagli Stati, anche se il concetto stesso è di complessa definizione e i parametri individuati da alcuni studiosi restano pur sempre soggettivi. In alternativa si potrebbe verificare se una misura è più o meno giustificabile in base alla normativa del Wto, ma in questo caso è necessario attendere il pronunciamento del relativo organo giudiziario. Un altro indicatore interessante è misurare l’andamento degli strumenti di difesa commerciale citati poc’anzi, ovvero misure anti- dumping, compensative e di salvaguardia, che rispondono a obiettivi differenti (cfr. scheda).
Nello scontro commerciale fra Stati Uniti e Cina, c’è una differenza nel tipo di prodotti colpiti: quelli sottoposti ai dazi Usa saranno soprattutto beni high tech inclusi nel piano Made in China 2025; viceversa la Cina colpirà beni statunitensi low tech (soia e carni di maiale). A quali obiettivi politici rispondono queste scelte?
I due contendenti mirano a colpire le industrie più sensibili all’interno dell’altro paese. Il presidente Trump vuole indebolire la politica industriale della Cina, che sta orientando in modo deciso gli investimenti pubblici e privati per favorire la transizione da un’industria tradizionale a un’industria ad alto contenuto tecnologico. allo stesso modo, il governo cinese punta a colpire la lobby agricola, che è quella che esercita maggiori pressioni su Washington. Gli stati a vocazione agricola sono quelli centrali, esattamente dove Trump ha raccolto i maggiori consensi. Detto questo, a mio avviso si tratta per il mo- mento di scaramucce. in primo luogo perché gli Usa hanno cominciato imponendo dazi su alluminio e acciaio ma per quest’ultimo la Cina non figura tra i primi dieci esportatori, sicché l’impatto sarebbe molto limitato – i principali sono stati esentati, è bene saperlo –. inoltre, il secondo round di misure, sia da una parte che dall’altra, è stato soltanto minacciato. Piuttosto che di guerra commerciale parlerei di partita a scacchi, nella quale l’obiettivo è riuscire a intavolare un negoziato bilaterale fra i due paesi.
Non si prevede alcuna escalation, quindi?
Non credo. Piuttosto va evidenziato un altro aspetto, ovvero che Trump non sembra agire all’interno della cornice del Wto, a differenza della Cina che è molto attenta nel trovare appigli che le consentano di giustificare le proprie azioni. La mia ipotesi è che il presidente americano voglia costringere Pechino ad aprire maggiormente il proprio mercato, rivedendo i termini dell’adesione al Wto. Nel 2001, quando la Cina è entrata, le condizioni per il suo ingresso erano quelle normalmente adottate per un paese in via di sviluppo. Ciò consentiva allo Stato più debole di applicare dazi mediamente più elevati rispetto a quelli vigenti negli Usa e nella Ue e di limitare l’apertura del proprio mercato. ancora oggi accedere al mercato cinese è complicato; viceversa entrare in quello americano o europeo è più semplice e gli stessi cinesi lo hanno dimostrato in questi anni facendo incetta di imprese. oggi, però, la situazione è cambiata: la Cina è diventata la principale potenza commerciale del mondo e Trump chiede reciprocità.
Potremmo dire che il presidente americano sta facendo da ariete.
Premesso che le modalità non sono condivisibili in quanto si poteva agire tramite negoziato, va anche riconosciuto che da molti anni la Cina esercita una forte pressione sull’industria occidentale e che tutti i paesi ne hanno sofferto. Se vogliamo vederla in positivo, Trump potrebbe rappresentare il “terremoto” che conduce a un nuovo sistema di equilibrio. L’aspetto negativo è che sulla base di tale precedente ogni paese potrebbe sentirsi autorizzato, d’ora in avanti, a comportarsi in questo modo mettendo in pericolo la stabilità economica internazionale.
Quali rischi corre l’industria europea?
Sono due essenzialmente. il primo è che entrambi i contendenti ridirezionino il proprio export sull’Europa, che è il mercato mondiale principale. il secondo è che, essendo la catena del valore ormai distribuita in tutto il mondo, anche l’industria europea potrebbe essere indirettamente colpita, in quanto le nostre imprese partecipano alla produzione di beni che poi vengono ultimati negli Stati Uniti o in Cina. Basti pensare a Boeing: attraverso Leonardo, parte degli aeromobili è costruita anche in Italia.
In quali sedi l’Europa può agire?
Premesso che l’Ue ha sempre la facoltà di applicare le misure di difesa commerciale, presso il Wto è possibile fare ricorso al sistema per la soluzione delle controversie. Purtroppo i tempi sono lunghi – tre o quattro anni in media – e nel frattempo non vi è l’obbligo da parte del paese imputato di sospendere l’applicazione della misura. Qualora sia accertata l’illegittimità della misura in esame, eventuali sanzioni commerciali si applicherebbero solo nel caso in cui il paese che ha perso la controversia dovesse rifiutarsi di rendere la propria legislazione conforme alle regole del Wto. il potere di deterrenza, ad oggi, resta quindi limitato, benché non sia da trascurare l’aspetto reputazionale.
Oggi preoccupa soprattutto il trasferimento di conoscenza verso i paesi di recente industrializzazione. Come cautelarsi?
In sede Wto esistono gli accordi sulla proprietà intellettuale, cui gli Stati aderenti devono adeguarsi. Tuttavia è noto come in molti paesi asiatici l’applicazione di queste norme sia difficile. oggi si tende a rafforzare la tutela della proprietà intellettuale inserendo un capitolo ad hoc negli accordi di integrazione regionale, come quelli sottoscritti dall’Ue con il Canada, il Giappone, Singapore, che prevedono norme più stringenti sull’enforcement. Un aspetto lamentato dagli Stati Uniti nei con- fronti della Cina è il fatto che gli investimenti esteri sono spesso vincolati alla sottoscrizione di joint venture con partner locali. Nel caso di beni a elevata tecnologia si configura un vero e proprio trasferimento di know how. Per questo occorrerebbe agire in sede negoziale per consentire alle imprese occidentali di investire nei paesi terzi mantenendo il controllo totale e senza mettere a conoscenza i produttori locali di eventuali segreti industriali.