La politica economica del dopoguerra si basava su un massiccio uso della spesa pubblica per l’investimento e per il welfare e su un rilevante ruolo dello Stato nell’economia: uno dei fattori alla base dell’elevata crescita sperimentata dai paesi industrializzati durante le Trente Glorieuses.
Dopo i turbolenti anni Settanta, l’accademia e i policy makers dei paesi avanzati hanno aderito ad un paradigma economico che si fonda sulla fiducia nella capacità dei mercati di assorbire gli shock macroeconomici, relegando quindi la politica economica ad un ruolo secondario nella gestione del ciclo economico: essa deve solo limitarsi a seguire regole chiare e prevedibili in modo da non interferire con il corretto funzionamento dei mercati, di cui si postula l’efficienza. In questo quadro di funzione limitata per le politiche macroeconomiche si accorda maggiore importanza alla politica monetaria, più efficace e meno soggetta al rischio di “cattura” da parte di gruppi di interesse rispetto alla politica di bilancio. Un posto di primo piano è invece riservato alle politiche strutturali cioè alle “riforme strutturali” (ad esempio, nel mercato del lavoro), la lotta ai monopoli, le privatizzazioni, le liberalizzazioni.
Il Nuovo Consenso si afferma simbolicamente con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher nel Regno Unito (1979) e di Ronald Reagan negli Stati Uniti (1980) per poi assumere, negli anni Novanta, anche le vesti di un “neoliberismo progressista”.
L’ortodossia del Nuovo Consenso domina la politica economica e l’accademia fino alla crisi del 2008 e oltre. È in questo quadro intellettuale che vanno situate le scelte di politica economica e istituzionali dei paesi avanzati e non. Ad esempio, questo lo sfondo che fa da riferimento al disegno del Trattato di Maastricht del 1992, che definisce i criteri per accedere alla moneta unica europea, e il successivo trattato di Amsterdam (1997), che viene a completare il quadro con il Patto di Stabilità e Crescita con, come obiettivo principale, il limitare ai soli stabilizzatori automatici la politica di bilancio. Per il Patto, infatti, il disavanzo strutturale (cioè quello che deriva da scelte discrezionali del governo, indipendente da fattori ciclici) deve essere uguale a zero. Il nuovo Fiscal Compact, approvato in tutta fretta nel 2012, aggiunge a questa regola l’obbligo della riduzione del debito pubblico verso il livello del 60% del Pil indicato dal trattato di Maastricht.
Anche la politica monetaria è coerente con tale quadro concettuale: la Bce deve solo preoccuparsi dell’inflazione e ha anche notevole indipendenza. È netta la differenza con la Federal Reserve americana il cui statuto, che risale agli anni Settanta, le affida il “doppio mandato” di perseguire sia la stabilità dei prezzi, sia la piena occupazione.
È la crisi finanziaria globale del 2008 a mostrare la fallacia del Nuovo Consenso per la stabilità macroeconomica; i mercati, progressivamente deregolamentati nei decenni precedenti, generano bolle speculative, disuguaglianza eccessiva, indebitamento e squilibri di bilancia dei pagamenti rivelandosi incapaci di stabilizzare l’economia. Anche la politica monetaria si rivela impotente nel rilanciare la crescita, impelagata nella trappola della liquidità e nel limite inferiore ai tassi.
Economisti e policy maker cominciano a interrogarsi sulla validità delle vecchie ricette keynesiane, forse troppo frettolosamente scartate, e in generale sulla solidità delle fondamenta teoriche del Nuovo Consenso. Si apre quindi la ricerca di un nuovo quadro di riferimento per ispirare nuove politiche economiche che riconoscano il ruolo della mano pubblica nel sostenere, e quando necessario (ri)orientare, il funzionamento dei mercati.
Dopo gli anni del “fondamentalismo di mercato”, in seguito alla crisi del 2008, molta parte della ricerca accademica sembra tornare oggi, sia pure ancora in modo non organico, ad una concezione keynesiana in senso lato dell’economia e della politica economica. Invece di delegare ai mercati – presunti efficienti – il compito di convergere al migliore dei mondi possibili, le autorità devono tentare di garantire quella stabilità che consenta investimento e accumulazione di conoscenze, e quindi una crescita sostenibile di lungo periodo.
In sostanza, la crisi finanziaria globale provoca un processo di ripensamento (Rethinking Macroeconomics) che risposta verso il centro il pendolo tra Mercato e Stato. Oggi, la politica di bilancio sembra imprescindibile sia per la stabilizzazione macroeconomica di breve periodo, sia per la politica industriale e per la fornitura di beni pubblici nel lungo periodo. Il ruolo dell’investimento pubblico, sacrificato per decenni in tutti i paesi, è centrale sia nel processo di ripensamento teorico, sia nei piani di ripresa dopo la pandemia. La differente risposta della Ue alla Crisi da Covid-19 (rispetto a quella data dopo il 2008) e il conseguente programma di investimenti pubblici (NGEU) finanziati con debito europeo è un segnale positivo di questo cambiamento di paradigma. Ma non basta per ritornare a crescere in modo equilibrato, finanziare infrastrutture sociali e la transizione green.
La recente proposta di riforma del Patto di Stabilità presentata dalla Commissione europea costituisce un sostanziale miglioramento rispetto all’esistente, ma non sembra garantire la creazione di uno “spazio fiscale” anche per finanziare gli investimenti pubblici o beni pubblici europei per far fronte alle sfide del futuro, dall’autonomia strategica all’investimento per le transizioni ecologica e digitale. Occorrerà aprire quanto prima il cantiere della creazione di una capacità fiscale europea.
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Nota sugli autori
Floriana Cerniglia è professore ordinario di Economia politica presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttore del Centro di ricerche in Analisi economica e sviluppo economico internazionale (CRANEC, Università Cattolica). È co-editor della rivista Economia Politica, Journal of Analytical and Institutional Economics, Springer. I suoi campi di ricerca sono la finanza pubblica e il governo multilivello. È autrice di numerose pubblicazioni nazionali e internazionali. Tra le più recenti: Greening Europe: 2022 European Public Investment Outlook (ed. F. Cerniglia, F. Saraceno), Cambridge, UK: Open Book Publishers, 2022
Francesco Saraceno è vice direttore di Dipartimento presso l’Observatoire Français des Conjonctures Economiques (Ofce), il Centro di Ricerca in Economia di Sciences-Po (Parigi). Ha dottorati di ricerca in economia conseguiti alla Columbia University e all’Università La Sapienza di Roma. Tra i suoi interessi di studio, la relazione tra disuguaglianza e performance macroeconomiche, le politiche macroeconomiche europee e l’interazione tra le riforme strutturali e le politiche fiscali e monetarie.
Insegna macroeconomia europea al Collège d’Europe (Bruges), all’Insead e alla Luiss, dove è membro del comitato scientifico della School of European Political Economy. Ha pubblicato in numerose riviste internazionali. Tra i suoi ultimi libri, La riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela, edito da Luiss University Press. Partecipa ai programmi di formazione del Fmi su politica di bilancio e crescita. Infine, svolge attività di consulenza per l’Ilo su politiche macroeconomiche e occupazione.