L’Osservatorio 4.Manager ha condotto uno studio sulle tematiche di genere sulla leadership femminile – attraverso il confronto con donne manager e imprenditrici aderenti alla Community “Think4WomenManagerNetwork” – che ha evidenziato come l’emergenza sanitaria da Covid-19 abbia assolto alla funzione di un potente “acceleratore di processi” o di passi rimandati da tempo, portando le imprese ad affrontare situazioni e transizioni “obbligatorie” a diversi livelli.
Ciò è avvenuto non senza difficoltà: il forte impatto dal punto di vista delle perdite di fatturato e delle chiusure per lockdown per una serie di attività economiche, ma anche dal punto di vista degli impatti psicologici.
La “resistenza” al digitale
Partendo dall’analisi dei processi accelerativi, tra i più importanti rientrano quelli legati alla digitalizzazione, divenuti necessari per lo svolgimento delle attività lavorative da remoto e per lo sviluppo di canali e attività e-commerce. Mentre una parte delle aziende italiane si è attivata per utilizzare i canali digitali come nuove opportunità di sbocco, un’altra presenta una “resistenza” al digitale, probabilmente considerato ancora un costo e non un investimento. Dall’analisi su un campione di 10mila imprese italiane, emerge, infatti, che soltanto il 20,6% possiede un sito web e solo il 2,3% un canale e-commerce. Il 59,5% delle imprese manifatturiere (il 12,3% del totale) possiede un sito web e il 7,4% di un canale di e-commerce.
Imprese italiane attive sui canali digitali | % | N. 10.000 imprese
Il gap sulle competenze
Anche i dati sulle competenze tecniche per il digitale non risultano incoraggianti. Dall’ultimo focus dedicato alla “Digitalizzazione nel mondo del lavoro” pubblicato dall’EIGE relativo al 2020, si evidenzia come soltanto il 10,0% delle donne in Italia e il 12,0% degli uomini tra i 16 e i 74 anni abbiano effettuato una formazione nel 2019 per migliorare le proprie competenze digitali, rispetto a una media Ue del 18,0% delle donne e del 22,0% degli uomini.
Anche la percentuale di donne e uomini che hanno competenze digitali che vanno oltre quelle di base è inferiore alla media Ue: 19,0% per le donne e 25,0% per gli uomini, contro il 31,0% delle donne e il 36,0% degli uomini in Ue. Inoltre, considerando il dato Italia e Ue la percentuale di donne laureate in Ict nel 2018 è nettamente più bassa degli uomini: 20,9% (Ita) e 20,1% (Ue), rispetto a una controparte maschile che supera il 79,0% in entrambi i casi.
Eppure, la trasformazione digitale non è più un’opzione per le imprese e comporta competenze tecniche adeguate a più livelli. Sarebbe quindi auspicabile, in aggiunta alla formazione digitale, investire anche in termini di orientamento alla formazione per incentivare le donne a intraprendere questi percorsi, ancora a prevalenza maschile.
L’impatto psicologico del lavoro da remoto…
Accanto all’accelerazione verso il digitale, le imprese stanno affrontando ripercussioni di natura psicologica. L’isolamento per le attività lavorative da remoto, l’incertezza finanziaria e lavorativa sul futuro, provocano nei lavoratori stati di ansia, paura del contesto, sovraccarico e pressioni quasi insostenibili. Molti di questi si sentono il dovere di essere sempre “connessi”, e, di conseguenza, il rischio di burnout diventa sempre più reale. In tale contesto, le grandi imprese, maggiormente strutturate, sostengono i dipendenti attraverso l’implementazione di canali informativi, di comunicazione aziendale, di azioni di ascolto e di supporto (aiuti psicologici, newsletter, survey sulla condizione dei lavoratori, suggerimenti e informazioni di varia natura, etc.). Attività, purtroppo, poco applicabili all’interno delle Pmi, maggiormente impegnate nella risposta all’emergenza e quindi alla sopravvivenza stessa.
…e quello sulle disparità di genere
Oltre ai delineati impatti piscologici, la pandemia nelle imprese ha impattato anche su alcune realtà e condizioni di genere, provocando un’accelerazione “negativa” di una serie di problemi preesistenti.
Rimangono forti quelle relative al gap salariale, alla parità nel trattamento e nel numero di dirigenti. Nel 2019 l’Inps rileva quasi 123mila lavoratori in posizione manageriale. Di questi, solo il 18,3% sono donne, con un gap salariale medio di quasi 31mila euro rispetto alla componente maschile.
Nelle realtà di impresa analizzate attraverso la Community, al gap salariale “percepito” si aggiungono le poche informazioni in tema di trasparenza salariale e una sensazione di disagio nel richiedere informazioni sulle retribuzioni, per paura di ripercussioni personali. Si riscontra, inoltre, una mancanza di informazioni su diversi temi legati alla parità di genere (retribuzione, congedi retribuiti, etc.), ma soprattutto il timore di fuoriuscire dal mercato del lavoro.
Alcune idee per cambiare lo status quo
Tra le proposte avanzate dalle partecipanti alla Community vi sono l’inserimento della parità retributiva nella contrattazione collettiva, una maggiore responsabilizzazione di datore di lavoro mediante sanzioni, l’obbligo di riferire in merito ai livelli salariali e la neutralità di genere nei sistemi di valutazione e classificazione del lavoro.
Inoltre, la trasparenza salariale contribuirebbe a far rispettare il diritto alla parità retributiva e incoraggerebbe i datori di lavoro ad agire, per attuare meglio il principio della parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per uno di pari valore.
Come si comportano le aziende?
Lo studio condotto dall’Osservatorio si conclude con il monitoraggio di 640 imprese (di cui 500 aderenti alla Carta per le Pari Opportunità e altre indicate dalle partecipanti), al fine di individuare le best practice aziendali, attraverso l’analisi delle comunicazioni delle stesse sul tema della parità di genere.
La quota che comunica iniziative attraverso i siti corporate è relativamente bassa, 20,5%, il 68,3% non presenta informazioni pertinenti o di interesse e l’11,2% non possiede un sito.
Quelle che comunicano sono imprese di grandi dimensioni, dato da non trascurare se si considera che il tessuto industriale italiano è formato per la maggior parte da Pmi, che difficilmente, senza una rete strutturata di contributi economici e sgravi fiscali a supporto, riuscirebbero a sostenere tali attività e iniziative.
È possibile, inoltre, distinguere le imprese che comunicano le iniziative intraprese a supporto della parità di genere (65,6%) dal restante 34,4%, che mostra soltanto una generica attenzione al tema.
Le iniziative monitorate sono ascrivibili a sei principali categorie: genitorialità, parità dei ruoli apicali, orientamento al lavoro e della formazione, parità salariale, maternità. Inoltre, alcune imprese integrano politiche di parità di genere all’interno della Csr, altre avviano attività per valorizzare il talento femminile, per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, alcune prevedono l’attivazione e la partecipazione a comitati interni o esterni per le pari opportunità, skill building, utilizzo di indici di sostenibilità.
Altre iniziative sono definibili “di vetrina”, principi generici utilizzati per costruire un’immagine positiva dell’azienda, ma che non si trasformano in concrete.
Siti corporate aziendali | Comunicazione della parità di genere – Principali topic | % | N. 640 imprese
Le quattro fasi di attenzione al tema
È stato possibile creare creata una classificazione di queste imprese “virtuose”, rispetto ai temi di interesse, distinta in quattro fasi, che coinvolgono via via sempre più attori:
- Doveristica: l’impresa comunica, con l’intenzione di mitigare le disuguaglianze di genere, verso stakeholder esterni.
- Sperimentale: sporadicamente e in modo non strutturato, si realizzano azioni concrete (riconducibili a normative di settore, o aspetti contrattuali) e si elaborano strumenti di misurazione.
- Consapevole: sono presenti sistemi di governance delle politiche di pari opportunità (trasversale alla gestione e al management aziendale), attuazione di strategie e piani di breve/medio e lungo periodo, investimenti in risorse, dotazione strumenti di misurazione e comunicazione pubblica del proprio impegno.
- Matura: l’impresa come luogo di lavoro diversificato e inclusivo. La diversità è un requisito nella gestione delle risorse umane e dei talenti, programmi di empowerment, formazione, coaching e mentoring per le donne. La distribuzione equa di genere tra i livelli gerarchici e remunerativi, anche tra le funzioni apicali.
Attualmente, l’attenzione al tema della sostenibilità da parte delle persone, dei consumatori e, in generale, di tutti gli stakeholder di impresa, è in forte crescita. Ecco perché le imprese sono chiamate a raggiungere una sostenibilità di genere interna, attraverso una comunicazione bidirezionale “trasparente” tra management, lavoratori, collaboratori (sistemi di networking), fissando una strategia e comunicandola, controllando i risultati e riadattandoli per un maggiore impatto reputazionale, e quindi rafforzando, di conseguenza, la sostenibilità esterna all’interno di un circolo virtuoso.
Buone pratiche e suggerimenti per le Pmi
Concludendo, quanto emerso non permette di costruire un ideal-tipo di impresa che sia valido e mutuabile anche per le Pmi per questioni organizzative, di capacità di spesa, per differenze dei comparti economici, così come per i profili lavorativi. Tuttavia, emergono alcune traiettorie di buone pratiche: l’adozione del paradigma di comunicazione bidirezionale trasparente da parte di tutte le imprese, Pmi comprese, costituisce una condizione abilitante a favore della parità di genere, per guidare processi di organizzazione e riorganizzazione interna, di costruzione reputazionale di comunicazione esterna o come risposta a criticità temporanee.
Tra le azioni specifiche, invece, una prima risposta di adattamento delle Pmi potrebbe essere la realizzazione di progetti pilota condivisi, che coinvolgano associazioni imprenditoriali, in primis a livello locale, creando tavoli di confronto con imprenditori ed Hr manager. In questo modo, si avrebbe la possibilità di effettuare azioni mirate alle esigenze di impresa.