
Il tema della produttività è protagonista da molto tempo nelle considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia. Quest’anno, dopo il triennio trascorso dall’economia italiana sulle montagne russe, la prospettiva passa dal breve al medio-lungo periodo e la questione della produttività ritorna al centro dell’attenzione.
Abbiamo assistito, dopo la pandemia, ad uno stravolgimento nel quadro d’insieme dei prezzi relativi cui eravamo abituati negli ultimi anni. Un aumento verticale dei prezzi dell’energia, seguìto dal balzo dei tassi d’interesse, che sono il prezzo relativo della liquidità, e dal calo repentino del corso dell’euro rispetto al dollaro. Si tratta, com’è evidente, di prezzi di rilievo per la vita stessa delle famiglie e delle imprese.
Nell’area dell’euro questi repentini mutamenti dei prezzi relativi hanno corrisposto ad altrettanti shock che arrivavano dall’esterno: prima i rincari della speculazione che hanno coinvolto i prezzi di energia e materie prime, iniziati prima della guerra in Ucraina ma esacerbati da questa; poi la svolta della politica monetaria della Fed, che ha inevitabilmente richiesto, assieme al caro-energia, una replica da parte della Bce; e infine il rafforzamento del dollaro, valuta-rifugio in tempi di instabilità globale, sostenuto appunto anche dall’aumento dei tassi Usa.
Ora i prezzi dell’energia scendono, ma l’inflazione non è ancora domata e il costo del debito è lievitato: questo, per un Paese manifatturiero ed esportatore come il nostro, si lega al tema della competitività e quindi della produttività.
Un punto sullo stato delle cose. Negli ultimi decenni, la produttività del lavoro in Italia cresceva dell’1,2% per anno tra il 1997 e il 2001; dello 0,6% annuo tra il 2004 e il 2007; e appena di un decimo di punto percentuale negli anni dal 2015 al 2019. La variazione media annua della produttività del lavoro in tutto il periodo tra il 1996 e il 2019 – prima del Covid – è stata dello 0,3% in Italia, a fronte di uno 0,7% annuale in Germania e uno 0,8% in Francia e Spagna.
Se consideriamo il primo ventennio di questo secolo, il confronto è ancora impietoso: la produttività del lavoro è aumentata dello 0,2% in media annua da noi, dello 0,6% in Germania, dello 0,7% in Francia e di un punto percentuale all’anno in Spagna (Fonte: CSC).
Nell’ultimo decennio, tuttavia, come rileva il governatore, anche grazie ad Industria 4.0 si è avviato un processo di modernizzazione e di ristrutturazione competitiva che ha riguardato, in particolare, la manifattura e alcuni comparti dei servizi, ad esempio la finanza. Come dimostrano le analisi di Banca d’Italia, del Centro Studi Confindustria e di Prometeia, la manifattura italiana si è dimostrata un caposaldo del sistema-Paese, prima e dopo la pandemia. È infatti quella che ha raggiunto per prima i livelli produttivi precedenti la pandemia da Covid-19, mentre ad esempio l’industria tedesca ha recuperato più tardi anche in conseguenza del ritardo del settore auto. La manifattura italiana costituisce inoltre, con un export su base annuale di circa 600 miliardi, un cardine per costruire una prospettiva finanziaria solida in questo tornante della nostra storia economica. Nonostante il rallentamento della congiuntura internazionale, l’export di beni manufatti ha infatti continuato a segnare aumenti importanti, con risultati migliori in termini di tenuta delle quote di mercato rispetto a Francia e Germania.
In prospettiva, tuttavia, un rafforzamento strutturale della produttività anche in altri comparti della nostra economia (dalla Pubblica amministrazione ai servizi professionali per le imprese) è una condizione necessaria per consolidare questi risultati: la questione riguarda tutto il Sistema-Paese.
Due aspetti, rilevati nelle considerazioni finali, sono particolarmente cruciali. Il primo concerne il ruolo della Pubblica amministrazione e della giustizia civile e i costi per il sistema di elementi della nostra burocrazia spesso eccessiva e inefficiente. Secondo il Doing Business della Banca mondiale, infatti, se per avviare un’impresa solo la Francia rende il meccanismo più agevole che in Italia, l’iter per i permessi di costruzione ci vede far molto peggio di Francia e Germania, mentre sprofondiamo nel ranking della tutela legale dei contratti (diritto fallimentare escluso). Il numero medio dei giorni necessari in Italia per ottenere il rispetto di un contratto era nel 2021 di 1.120 giorni contro i 500 circa di Germania e Spagna e i 450 della Francia. Il costo per ottenere il rispetto di un contratto era di circa il 27% del valore dello stesso da noi, contro il 17% di Francia e Spagna e il 14% della Germania. Non molto è cambiato da allora e l’occasione del Pnrr in questo caso non può assolutamente andare perduta.
Il secondo aspetto riguarda le ridotte dimensioni delle aziende italiane rispetto alle concorrenti europee, per non parlare di quelle oltreoceano. La questione, come sappiamo, è antica, complessa e multiforme. Ostacoli amministrativi e fiscali vi concorrono e vanno rimossi, mentre sono da introdurre e rafforzare gli strumenti idonei, normativi e finanziari, per promuovere la crescita dimensionale. Che poi, com’è ben noto, si accompagna alla crescita funzionale e organizzativa delle imprese, che diventano più articolate e dense di competenze.
Nel panorama produttivo globale che si va delineando ormai da tempo, senza questa crescita funzionale si rischia di perdere la battaglia competitiva, di esser tagliati fuori dalle catene del valore internazionali, oppure di raccogliere meno in termini di valore aggiunto di quanto la nostra tradizione manifatturiera meriti.