Oltre settanta appuntamenti e un centinaio di relatori. Numeri di tutto rispetto per una prima edizione. Come nasce “The Publishing Fair”?
Sono un’imprenditrice del settore, la mia azienda “Verba Volant” è un service che produce contenuti per i maggiori editori italiani e per il mercato internazionale. Con il mio collega Lorenzo Armando, a sua volta imprenditore della casa editrice Lexis, siamo spesso all’estero per partecipare a fiere internazionali – a Francoforte, Londra e Parigi si tengono le più importanti – e in questi anni ci siamo resi conto di come mancasse nel nostro Paese un appuntamento dedicato a chi fa business. Le fiere esistenti sono pensate per un pubblico generalista e l’obiettivo principale è la vendita di libri. Serviva a nostro avviso un’occasione che desse gli imprenditori del settore gli strumenti e i contenuti tecnici per rendere i processi più efficienti e introdurre nuova managerialità.
La fiera intende far conoscere le molte e diverse figure professionali che sono coinvolte. Nella presentazione citate designer, sviluppatori di software, esperti di realtà aumentata applicata all’editoria.
Sì e si tratta spesso di figure talmente nuove che gli stessi operatori non le conoscono. Sarà ospite, ad esempio, Audible, la società di Amazon che si occupa di audiolibri. Hanno avuto un boom incredibile e qui in Italia sono alla ricerca di figure professionali che non riescono a trovare. Le nuove tecnologie hanno avuto un impatto fortissimo sull’industria del contenuto, quale è appunto l’editoria, ma per cogliere le opportunità bisogna conoscere i nuovi strumenti.
Ci fa un esempio?
Alla fiera presenteremo Indexact, una startup nata a Torino che adopera l’intelligenza artificiale per comporre gli indici analitici che si trovano alla fine di un libro. È un lavoro che fino a poco tempo fa faceva manualmente un operatore, taggando le singole parole da inserire. Per automatizzare il processo è stato necessario comporre un team di persone con competenze sia linguistiche che informatiche. È una nuova frontiera che stiamo esplorando.
C’è ancora futuro, quindi, per chi sceglie una formazione umanistica?
Dal mio punto di vista c’è un grande futuro. Dopo anni in cui le discipline scientifiche e umanistiche hanno viaggiato separate, oggi ci sono le condizioni per un “felice matrimonio”. Si parla infatti di digital humanities, no?
Se poi guardiamo i dati, con oltre tre miliardi di euro l’editoria rappresenta il primo comparto culturale per fatturato e, in particolare, i comparti non fiction, ovvero editoria scolastica, accademica, professionale, saggistica e grandi opere, costituiscono i due terzi della produzione: non si può certo dire un settore marginale.
Tutto bene, dunque?
No, le criticità esistono, soprattutto nella formazione e nell’incontro di domanda e offerta di lavoro. Nonostante l’editoria assuma più giovani della media, questi non prendono in considerazione il settore come sbocco lavorativo o come possibile applicazione dei loro studi scientifici. Il libro oggi è uno strumento complesso, non è solo carta ma si avvale di diversi supporti complementari.
Cosa andrebbe fatto, invece, lato imprese?
Le case editrici in Italia rispecchiano il tessuto imprenditoriale del Paese. Le più grandi hanno per l’appunto un metodo di lavoro da grande azienda, in quelle medio piccole l’editore è spesso un one man band, che delega con difficoltà alcune funzioni o non ha personale formato cui affidarle. È il caso delle nuove tecniche di vendita online, che necessitano di figure specializzate. Su questo aspetto molti piccoli editori sono indietro.
Per gli stessi motivi, inoltre, guardano poco al mercato internazionale, che al contrario è una grande risorsa. A questo proposito, attraverso “The Publishing Fair” siamo diventati l’unico partner italiano di un network europeo che unisce tutti gli eventi legati all’innovazione editoriale: vogliamo che le nuove competenze maturate all’estero arrivino anche da noi e viceversa.
La fiera è patrocinata (tra gli altri) dal Parlamento Europeo, dalla Regione Piemonte, dal Comune di Torino e dall’AIE, che tuttavia esprime soltanto una parte della filiera. C’è dunque un deficit di rappresentanza?
Editori e stampatori sono le due categorie ad oggi più rappresentate, ma la filiera è molto più ricca e composita. Parliamo di 20/25mila aziende che non sono attualmente organizzate e registrate, senza menzionare tutti i freelance che sono a tutti gli effetti parte della filiera produttiva. Serve una rappresentanza congiunta che possa esprimere le necessità del settore nel suo complesso.