La prima immagine che ho di Cesare, forse la più bella, me la diede direttamente lui durante una conferenza a Firenze, quando paragonò l’editore a chi aspetta sulla riva del mare manoscritti in bottiglia. “È solo questione di spazio” disse Cesare in quella circostanza, “Mondadori ha una spiaggia più lunga, io una più corta, ma l’esercizio è lo stesso: aspettare.” Questo particolare la diceva lunga sulla capacità di Cesare nel pronunciare fiabe che coincidessero con la verità. E poi mi dava la percezione di una vita spesa tra la pazienza e l’avventura, tra il sentimento del tempo che deve maturare e quel misto di curiosità visionaria che presto o tardi si sarebbe tradotta in voracità di lettore.
In Cesare si esasperava quel senso di attesa che era la sua maniera di inseguire i caratteri del nostro tempo, di utilizzare gli strumenti della letteratura come grande dizionario per decodificare il mondo. Molto spesso, dialogando con lui, si finiva per dialogare sulla modernità, su cosa essa fosse, su quale significato assumesse per ciascuno di noi in relazione al nostro navigare dentro il mare dell’ignoto che è la vita. Inseguire la modernità non vuol dire sposarla, ma può essere una buona regola per chi ha a che fare con i libri, strappare a essa i segreti per tradurli in parole o per scovare nelle parole degli scrittori che gli inviavano dattiloscritti un barlume di essa. In ogni libro che Marsilio ha pubblicato c’è un pezzo del mosaico di questa modernità a cui Cesare guardava con occhi mai del tutto incantati, anzi con il sospetto che è tipico dei maestri. E, se vogliamo essere ancora più precisi, del sospettoso Novecento, il secolo da cui Cesare, insieme alla gloria del Cinquecento, era attratto. La metafora del mare si addiceva perfettamente non solo perché la casa editrice, così come io l’ho conosciuta nel 1999, la casa rossa, aveva i piedi nell’acqua, ma anche perché la casa di Cesare, a Dorsoduro, è un’enorme imbarcazione di legno e di carta, l’Arca di Noè, dove Cesare accumulava libri salvandoli da un apocalittico rischio di dispersione. La casa di Dorsoduro, per me, era una maestosa arca di libri, pareva galleggiare, pur con il suo immenso carico, sull’acqua. Era l’ennesimo miracolo che mi regalava questa città e quest’uomo, che ho sempre ammirato per il coraggio con cui non si lasciava mai imprigionare dalle opinioni comuni, dal rischio di mancare l’appuntamento con l’idea, con la prospettiva originale con cui spiazzava tutti. “Ora io non ho né luogo, né paese, ho solo questa terra della memoria” scrive a un certo punto Giuseppe Berto nel ‘Male oscuro’, un libro che Cesare amava particolarmente.
Noi abitiamo una memoria, non solo quella nostra, ma anche la memoria delle storie che abbiamo ascoltato e raccontato, abitiamo la terra dei libri che abbiamo letto. Cesare ha abitato molte terre e se esiste un segreto in questa religione che chiamiamo letteratura – e io penso che esista perché altrimenti in cosa crediamo? – io penso che tutti noi continueremo a incontrare gli uomini con cui abbiamo condiviso quei territori. I libri sono il territorio in cui abbiamo vissuto con Cesare e su quell’arca di carta noi continueremo a incontrarlo.
UNA PAGINA D’AUTORE
“L’editore sta nel mezzo tra chi ha scritto e chi leggerà e, come gli antichi pontremolesi carica i fogli stampati nella sua gerla per trasportarli da un capo all’altro: nasce qui, nel riconoscimento di questo ruolo l’esigenza di un progetto o meglio di un percorso da compiere, un percorso che costa lavoro ed energie, risorse e denaro, e che va quindi pazientemente studiato per non vanificare gli sforzi. Nel corso di questo secolo, quando tragicamente le ideologie si illusero di guidare i destini del mondo, l’editore di progetto sacrificò qualsiasi regola di mercato al primato della propaganda, giustificando così gli scacchi che intanto subiva con l’etica machiavellica che il fine giustifica i mezzi”.