Il momento di fare scelte di campo ben definite pare essere arrivato. Un prendere coscienza del cambiamento delle catene del valore mondiale che Massimiliano Zamò, vice presidente di Confindustria Udine e delegato alla Piccola Industria, crede ormai indifferibile, soprattutto se si guarda a quanto generato negli ultimi decenni dalle pratiche commerciali legate all’offshoring. Delocalizzazioni per molti versi non più sostenibili anche a causa dell’accelerazione prodotta dagli effetti del Covid-19 e di cui si è parlato durante il webinar “Tra offshoring e reshoring: vecchie e nuove geografie del manufacturing”, promosso da Confindustria Udine e Confindustria Alto Adriatico lo scorso 5 maggio, in collaborazione con l’Università di Udine.
“La delocalizzazione spinta verso paesi più o meno vicini fu vista come una panacea, in un’ottica quasi esclusivamente attenta alla salvaguardia dei costi. Le aziende che presero questa strada sono proprio quelle che ora stanno rientrando in Italia, facendo crescere i numeri del reshoring – spiega Zamò –. Altre, invece, hanno messo a punto una strategia più complessa che prevedeva la presenza sul mercato di sbocco e ulteriori accorgimenti. E mi pare non stiano avendo gli stessi problemi”.
Il rientro in patria, totale o in parte, delle aziende che avevano delocalizzato non è comunque una novità, ma prende forma a partire dalla fine degli anni ’90. “Soprattutto chi era nel Far East ha progressivamente cominciato a capire che il gioco non valeva più la candela in termini di costi. Devo dire, parlando di reshoring, che non vedo uno scenario univoco: per alcuni è solo riportare all’interno dell’impresa determinate fasi produttive, per altri, invece, l’obiettivo è accorciare le lunghe trafile che contraddistinguono le catene del valore, sia in termine di distanza fisica che di tempistiche”, sottolinea il vice presidente di Confindustria Udine.
Per rendere, non solo economicamente, meno stressanti le dinamiche delle filiere produttive si è poi iniziato a parlare di nearshoring, ossia il trasferimento in un paese molto più vicino alla casa madre delle attività precedentemente delocalizzate. “Durante la pandemia, con intere fabbriche bloccate in Cina come nel Far East, molti hanno ripensato le proprie strategie. Scelte dettate anche dalla deindustrializzazione strategica decisa a livello nazionale. Personalmente credo molto sia nel reshoring che nel nearshoring: entrambe le formule sono valide, ma non per tutti. È infatti impensabile che le produzioni di alcune, specifiche aziende possano tornare in Europa o in Italia, mentre resto convinto che ripensare le catene del valore debba essere un traguardo da raggiungere per ogni impresa”.
Per uscire, insomma, dagli interrogativi generati dal dilemma offshoring-reshoring, Zamò crede ci sia bisogno di decidere in fretta quale strada imboccare. “Siamo nel bel mezzo di una tempesta perfetta e uscirne non sarà certamente indolore. Mentre aumentano i costi delle materie prime, i tempi delle consegne diventano sempre più stretti e le rotture di stock sono sempre più frequenti. Mettiamoci anche il fattore sfortuna, come lo stop di qualche tempo fa nel canale di Suez, ed è facile che i conti non tornino più. A questo punto per me le opzioni sono due: lasciarsi trasportare passivamente o reagire cavalcando l’onda sull’orlo del caos. Scelta, quest’ultima, che implica il saper leggere gli scenari attuali per non farsi travolgere dallo tsunami che potrebbe essere all’orizzonte”.
Reshoring o nearshoring che possono essere implementati a patto di non tralasciare l’importanza di tre precondizioni d’uso. “In primis, per noi imprenditori una visione chiara su dove andare e cosa fare, poi l’uso corretto delle risorse economiche che dovrebbero arrivare con il Recovery Plan, oltre a un patto di coesione tra aziende ed istituzioni per inseguire un obiettivo comune, quello di guardare alle generazioni future. Il reshoring non si porta a termine in due giorni e abbiamo bisogno di venire supportati per trovare un contesto ambientale favorevole per fare impresa. Perché se le filiere possono essere distrutte nel giro di pochissimo tempo, ci possono volere poi anni per renderle di nuovo operative”, chiarisce Zamò.