Istituito dalla nuova Presidenza di Confindustria, il Gruppo Tecnico “Made in” ha come oggetto l’utilizzo e la tutela delle diciture che identificano l’origine di un bene ai fini della sua commercializzazione in Italia e all’estero.
Nella sua accezione nazionale, esso tratta quindi del made in Italy, dei sistemi di etichettatura, delle misure, delle norme o dei regolamenti che ne disciplinano l’uso, ma anche delle iniziative settoriali, quali i marchi collettivi, che richiamano l’italianità dei prodotti, nonché delle proposte e delle iniziative di origine pubblica, sia nazionali che europee, volte a intervenire in questa materia.
Presidente del comitato è stato nominato Paolo Bastianello, Vice presidente Smi e amministratore Gta Moda. A lui abbiamo chiesto di illustrarci gli obiettivi per il futuro.
Presidente, il nome del Gruppo Tecnico sembra andare oltre il made in Italy. È cosi?
Esattamente. Oltre a promuovere e tutelare il made in Italy, ossia le produzioni nazionali che possono fregiarsi di questa indicazione secondo le regole stabilite dal codice doganale comunitario, dobbiamo pensare anche a come fare fronte a quelle che vengono commercializzate in Italia e in Europa senza alcuna indicazione.
Lei stesso può effettuare un’analisi di mercato tanto semplice quanto indicativa: verifichi le etichette degli abiti e delle calzature che ha nel suo guardaroba, dei mobili o delle ceramiche che arredano la sua casa, dei gioielli di sua moglie e così via, e scoprirà che questa importantissima informazione – che rivela al consumatore molto più di quanto riporta per iscritto – appare in maniera a dir poco casuale: in qualche prodotto sì, in qualcun altro no.
C’è poi un terzo caso, che è quello che desta maggiore preoccupazione: alcune di queste indicazioni sono false, ossia c’è scritto “made in Italy” ma non è vero.
C’è chi sostiene che il “vero” made in Italy è prodotto interamente in Italia.
Per fortuna c’è ancora anche quello, ma non riesco a pensare che l’intero sistema industriale nazionale possa produrre beni senza importare beni intermedi. Infatti le regole Ue sono più ampie proprio per ricomprendere nell’origine di un bene anche alcune sue parti, non sostanziali, provenienti dall’estero.
Bisogna partire dal duplice presupposto che la globalizzazione produttiva non è un’opzione, ma un dato di fatto e per la grande maggioranza dei settori industriali, essa non è soltanto positiva ma necessaria.
Per questo la Ue prevede che il “made in” venga attribuito dal luogo dove si svolge la fase di lavorazione sostanziale di un prodotto.
Siamo nati e cresciuti come sistema trasformatore. La punta di diamante dell’industria italiana è la sua straordinaria capacità nelle fasi di industrializzazione, dove in un “brodo primordiale” di tradizione, ingegno e ricerca, si sono sviluppate le nostre eccellenze nei processi, nelle tecnologie, nel design. In una parola, nella “qualità” che rende il made in Italy unico al mondo.
Ma come si fa a distinguere le produzioni nazionali da quelle importate?
Al momento ci si deve affidare alla volontarietà del produttore di apporre l’etichetta di origine. Quello che chiediamo da anni a un’Europa sempre più lontana dalla realtà quotidiana delle imprese, è la cosa più banale al mondo: fare quello che fanno tutti gli altri principali competitor mondiali, ossia rendere questa etichettatura obbligatoria, come negli Usa, in Giappone o in Cina.
I criteri e le regole per farlo sono fissati, basta applicarli. Davvero non si capisce perché il consumatore americano sa sempre da dove proviene un ptrodotto, mentre quello europeo deve affidarsi alla buona volontà del produttore. In sintesi, ciò che nel mondo extra Ue è un “obbligo”, nella Ue è solo una “facoltà”.
Se le cose cambiassero e il “made in” divenisse obbligatorio anche in Europa, tutto ciò che non è made in Italy, ad esempio, “emergerebbe” automaticamente e il consumatore farebbe la proprie scelte in maniera più consapevole. Purtroppo l’industria dei paesi nordici, che ha delocalizzato interamente o quasi, si oppone attraverso i propri governi, con il risultato che la proposta per il “made in” europeo è in ostaggio dei paesi contrari, prevalentemente quelli nordici.
Sarà un gruppo tecnico “itinerante”. Perché?
Anzitutto va ricordato che questo gruppo, denominato diversamente (“Made in Italy e lotta alla contraffazione”), esiste dalla presidenza Montezemolo che lo ha istituito.
Lisa Ferrarini lo ha presieduto nel primo biennio della presidenza Squinzi e quando ha assunto la delega per l’Europa ha continuato a occuparsene; perciò il tema è sempre stato prioritario per Confindustria e ha una propria storia ormai consolidata.
Insieme a Lisa, tuttavia, abbiamo deciso che qualcosa andava cambiato per portarlo più vicino agli imprenditori. Abbiamo preso questa idea dalla nostra stessa esperienza di imprenditori che hanno assunto cariche associative, prima locali o settoriali, poi nazionali.
Come richiama la vostra rivista, l’imprenditore è una categoria particolare. Anche quando lavoriamo per il sistema confederale, il nostro spirito rimane lo stesso e la nostra prima caratteristica è la curiosità, la passione per un mestiere che non è mai uguale a sé stesso. Così abbiamo scelto di approfittare di queste riunioni per condividere alcune esperienze professionali. Se vogliamo, possiamo rifarci al principio di “sussidiarietà”, per il quale le decisioni vengono assunte meglio se l’analisi si svolge vicino al destinatario dell’azione, che nel nostro caso è l’impresa.
In quest’ottica, cosa si può immaginare di più stimolante che incontrarsi all’interno di uno stabilimento industriale? Per farle un esempio, io produco abbigliamento e non avrei mai avuto l’occasione di visitare uno stabilimento che produce prosciutti, se Lisa Ferrarini non ci avesse ospitato e fatto visitare le linee di produzione. Le posso assicurare che è stato affascinante e che tutti i membri sono entusiasti dell’idea. Sarà una specie di roadshow dove avremo tutti modo di imparare qualcosa. Anche la struttura di Confindustria, che mi assiste con grandissima competenza, ha accolto questa novità come un’occasione di “formazione sul campo”. Ma è anche un segnale di attenzione che vogliamo dare al territorio: vogliamo restare vicini alle realtà industriali e agli imprenditori anche fisicamente, tenendo gli incontri a casa loro.
Come si è svolta la riunione di insediamento?
Anzitutto, direi, al galoppo. Credo che siamo stati uno dei primi gruppi tecnici a partire dopo la formazione dei membri e la pausa estiva. Il piatto forte dell’agenda è stata la proposta governativa per l’istituzione di un “contrassegno” per fare sì che i prodotti del made in Italy, come abbiamo detto, secondo le regole doganali europee, abbiano uno aspetto grafico e uno strumento di promozione e di tutela uniforme, volontario – perché nessuno deve essere obbligato a servirsene – ma uniforme.
Gli obiettivi e le modalità operative dell’iniziativa ci sono stati illustrati da un membro della Segreteria tecnica del Sottosegretario allo Sviluppo economico Ivan Scalfarotto.
Ci può spiegare in dettaglio?
Il progetto si sostanzierebbe nell’abbinamento dell’indicazione “Made in Italy” all’emblema della Repubblica italiana in un “contrassegno”, graficamente uniforme e messo a disposizione delle imprese per essere utilizzabile esclusivamente con riferimento ai prodotti che rispettano i requisiti stabiliti dalla legislazione comunitaria.
L’ipotesi progettuale prevede il coinvolgimento del Poligrafico di Stato (Ipzs) per inserire tale contrassegno nelle carte valori che l’Ipzs realizza con tecniche di sicurezza in grado di assicurare un’ampia protezione dalle falsificazioni. L’iniziativa sarebbe supportata da una campagna promozionale in Italia e nei principali mercati internazionali e da un kit informativo per le imprese.
Il Gruppo ha approfondito il tema e ne ha, nel complesso, accolto favorevolmente gli obiettivi. Chiaramente restano diversi punti aperti, soprattutto nell’attuazione pratica, che potrebbero, ad esempio, essere analizzati e chiariti in una fase pilota.
Altrettanto chiaramente, il progetto del “contrassegno” non supplisce né si pone come un’alternativa, al “made in” europeo e si dovranno mettere a punto delle modalità applicative che non sminuiscano l’importanza di alcuni marchi collettivi settoriali già adottati da alcune nostre associazioni.
Insomma, c’è da lavorare, ma la base progettuale ci è apparsa valida.
Che altri argomenti avete in agenda per il 2016-2017?
A livello nazionale vi sono proposte legislative di origine sia parlamentare che governativa volte a disciplinare l’applicazione della dicitura “Made in Italy”. Spesso queste proposte sono in netta contrapposizione con le norme europee sulla libera circolazione delle merci.
Altre volte, esse prevedono di imporre alle imprese oneri e costi aggiuntivi e ingiustificati. Sovente, infine, presentano entrambe queste criticità, quindi dobbiamo esaminarle, discuterne e predisporre la posizione ufficiale di Confindustria per eventuali audizioni parlamentari o per segnalarla al Legislatore.
Va ricordato che adottare norme nazionali contrarie alla Ue comporta una procedura di infrazione, quindi con la nostra attività cerchiamo anche di evitare spese inutili al bilancio dello Stato. Per altro verso, il panorama legislativo nazionale fornisce anche iniziative volte a informare il consumatore sulla provenienza di materie prime, semilavorati, processi, tecnologie e altri elementi inerenti alle diverse fasi di lavorazione del prodotto finito, oppure per adottare sistemi per contrastare il fenomeno della contraffazione.
Tali proposte incappano spesso negli stessi limiti europei ora citati per il made in Italy, mentre in altri casi si limitano a proporre schemi di tracciabilità volontari attraverso l’apposizione, ad esempio, di codici a barre o altri dispositivi compatibili con le tecnologie smartphone, tablet, ecc. di riconoscimento sul mercato, talvolta anche collegati alle banche dati dell’Agenzia delle dogane e/o della Guardia di Finanza.
Anche su questo fronte, operiamo un monitoraggio attento e puntuale.