Come riassumerebbe il primo anno alla guida di Confindustria?
È stato un anno duro, non semplice, affrontato con determinazione e passione.
Abbiamo tenuto la barra dritta e tutta l’associazione è stata compatta sulle grandi priorità. Sono stato in tantissime delle nostre Assemblee incontrando i nostri associati, ascoltando i nostri presidenti e vivendo momenti determinanti per la vita associativa e per condividere idee e progetti.
Di che cosa si può dire soddisfatto?
Sono particolarmente contento della mobilitazione di tutto il sistema in aiuto delle zone del Centro Italia colpite dal sisma e dalle calamità degli ultimi mesi.
Il fondo Fabbrica Solidale che abbiamo istituito servirà ad aiutare la ripresa delle attività produttive e a sostenere istituzioni culturali, scuole, università. E possiamo anche dirci soddisfatti della nostra visione di politica economica che incorpora un’idea Paese che comincia ad essere condivisa anche all’esterno del nostro mondo.
A che cosa si riferisce in particolare?
Agli strumenti per la crescita dimensionale e finanziaria, per esempio. Abbiamo sempre pensato che la dimensione piccola e piccolissima che caratterizza il nostro sistema produttivo andasse superata. Piccolo non è più bello. La crisi ha reso ancora più urgente agire in questo senso. Credo nel progetto Elite dalla sua nascita e quest’anno ne abbiamo massimizzato i risultati. Come pure abbiamo lavorato sulle reti d’impresa e su strumenti finanziari ad hoc per le pmi e stiamo puntando all’innovazione dei processi con le opportunità offerte da Industria 4.0 nel contesto di una politica economica orientata ai fattori e non ai settori.
Un grande saldo di qualità nella nostra visione evolutiva del sistema di rappresentanza.
Che cosa, invece, non le è riuscito ancora di fare?
Se guardiamo a ciò che abbiamo fatto, abbiamo fatto tanto. Se guardiamo in avanti, abbiamo tantissime idee e tantissimi progetti avendo chiari i tre pilastri della nostra azione: identità, servizi e rappresentanza. Continueremo in questa direzione.
L’Italia è sempre in crisi economica?
Se identifichiamo la crisi con i tecnicismi della recessione, possiamo dire che l’Italia e il mondo ne sono fuori. Ma credo che un segno più davanti non sia sufficiente per dire che siamo al sicuro. Non possiamo andare a raccontare favole a chi – imprenditore, lavoratore, cittadino – vede che la propria situazione non è migliorata.
Servono fiducia e ottimismo; serve anche e soprattutto una stagione di verità. In quasi un decennio di crisi mondiale il nostro paese ha perso il 25% della capacità produttiva, in alcuni settori il 40%, abbiamo perso quasi un milione di posti di lavoro. Inoltre, l’Italia è il paese europeo che cresce meno rispetto agli altri, per il 2017 prevediamo un Pil intorno all’1%.
Gli investimenti sono crollati di 30 punti; c’è un’inversione di tendenza e nel 2016 abbiamo registrato un più 7,6% anche se non possiamo nascondere che la strada resta lunga e difficile. Ma il sistema industriale sta reagendo e l’export migliora. Il che significa che strumenti selettivi come iper ammortamenti, super ammortamenti, Industria 4.0 nonché il Jobs Act non potranno che consolidare l’interessante lettura del Trade Performance Index del 2015, per il quale su sedici settori considerati l’Italia è prima in tre, seconda in altri tre e terza in due.
Come se ne esce?
Il nostro Paese ha degli handicap che ci portiamo dietro da 15 anni. Sono 15 anni che non cresciamo. Abbiamo una produttività inferiore del 30% rispetto alla Germania e paghiamo l’energia il 20% in più. Nonostante questo siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania. Questo da una parte ci riempie di orgoglio, dall’altra ci fa comprendere le potenzialità che abbiamo perché pensiamo che senza questi handicap potremmo essere i primi al mondo. Nonostante tutto fare impresa è nel dna degli italiani e questo ci salverà. Non esistono ricette magiche. Quello che possiamo fare è cercare di eliminare gli ostacoli, mettere le imprese nelle condizioni di correre.
Anche noi imprenditori dobbiamo fare la nostra parte. Dobbiamo prendere coscienza che è finito il tempo dei “cahier de doleance“, degli aiutini e che dobbiamo alzare il livello della competizione: investire in ricerca e innovazione, andare in mercati di nicchia o non esplorati. Dobbiamo puntare sulla qualità e sulla materia grigia, i nostri asset, perché se pensiamo di competere al ribasso abbiamo già perso. Abbiamo un 20% di imprese che nel loro settore sono leader nel mondo, un 20% che è stato travolto dalla crisi e difficilmente potrà salvarsi e il restante 60% in condizioni di difficoltà. Dobbiamo aiutare questo gruppo ad entrare a far parte della punta avanzata e il 20% della punta avanzata a fare di più.
Quali sono i dossier più caldi del momento?
È in discussione la cosiddetta manovrina e a ottobre, come al solito, ci sarà la Legge di Bilancio. Comprendiamo che ci sono vincoli su deficit e debito che non possiamo permetterci di ignorare, ma avremmo voluto maggiore coraggio. In questi anni sono stati adottati provvedimenti positivi, che stanno dando risultati. Mi riferisco al Jobs Act, al super ammortamento, al rifinanziamento della nuova Sabatini, al credito d’imposta per il Mezzogiorno. Strumenti che non vanno smantellati. Al contrario, vanno mantenuti e, se necessario, potenziati.
Ed è possibile?
Vediamo un clima da campagna elettorale permanente e crescente con l’avvicinarsi della tornata. È un film già visto, ma ci auguriamo che non si entri nella fase delle mancette e dalla distribuzione a pioggia, aumentando anche indirettamente il carico fiscale sulle imprese. Una scelta di questo tipo gelerebbe sul nascere i germogli di ripresa e il paese pagherebbe un prezzo molto caro.
Il Consiglio Generale dello scorso 11 maggio ha varato l’aumento di capitale del Sole 24 Ore. Il peggio è alle spalle?
Il Sole24ore è un patrimonio per Confindustria in un Paese in cui solo il 30% dei cittadini sa che rappresentiamo la seconda realtà industriale d’Europa.
Ci siamo comportati nel rispetto dei ruoli e delle competenze e abbiamo lavorato in silenzio. Perché a noi interessa una sola cosa: che la situazione aziendale sia messa in sicurezza.
L’11 maggio abbiamo varato l’aumento di capitale e la nuova governance a maggiore garanzia del buon funzionamento del piano industriale. In questa vicenda si consolida un nostro pensiero: che ci sono due categorie di persone, quelle che dicono le cose e quelle che le fanno. Noi l’11 maggio abbiamo fatto cose.
Che cosa chiede alla politica?
La nostra Confindustria non chiede alla politica, siamo un attore della politica. In quanto rappresentanti di una parte importante della società civile abbiamo il diritto e il dovere di schierarci e assumere scelte che sono politiche per loro natura.
Se dovessimo indicare quella che consideriamo una priorità, non per le imprese ma per il futuro di questo Paese, diremmo di puntare sui giovani. La disoccupazione giovanile è la cosa che come cittadino, padre e imprenditore mi preoccupa di più.
Ci sono delle zone, specie al Sud, dove la metà dei giovani non ha un lavoro. Non ci possiamo permettere di perdere una generazione, non possiamo permetterci di rinunciare al futuro. Per questo abbiamo proposto di realizzare un grande piano di inclusione dei giovani nel mondo del lavoro, azzerando il cuneo fiscale per quelle imprese che li assumono a date condizioni.
È una proposta che potrebbe sembrare non rientrare negli interessi immediati delle imprese, ma crediamo e ripetiamo che dobbiamo essere in grado di guardare oltre l’interesse meramente corporativo per svolgere bene il nostro ruolo di corpi intermedi, di ponte tra gli interessi delle imprese e quelli della società.
Una società aperta e inclusiva deve essere coerente e la crescita diventa uno strumento per combattere disuguaglianze e povertà, non un fine.
Ai sindacati che messaggio manda?
Quello che vale per noi vale anche per loro. Stiamo vivendo una stagione in cui si è cercato in tutti i modi di indebolire e screditare il valore e il senso della rappresentanza. Non senza qualche ragione, devo purtroppo aggiungere.
Pensiamo che la legittimazione a farsi riconoscere e rispettare come interlocutori debba essere conquistata e difesa tutti i giorni. Per questo abbiamo lanciato l’idea di un Patto della Fabbrica che ci aiuti a compiere le scelte giuste per le imprese e i lavoratori nella logica di uno scambio virtuoso per aumentare insieme produttività e salari. Un invito responsabile alla collaborazione come già Guido Carli, negli indimenticabili anni della sua presidenza in Confindustria, invitava a fare per accrescere la competitività delle aziende e del sistema e affrontare più forti le sfide di oggi e di domani.
Esiste ancora una questione meridionale?
Esiste una questione industriale che riguarda tutto il paese e molto di più il Mezzogiorno, che è indietro in tutto. Non crediamo però che il Sud abbia bisogno di politiche speciali o di essere trattato come una riserva indiana. Ha bisogno di strumenti più forti e di investimenti. Anzi, aggiungo anche che il Meridione, proprio perché ha più strada da recuperare, ha maggiori potenzialità, potrebbe diventare un’area emergente e di attrazione, un nuovo Eldorado per gli investitori. Con il Governo stiamo lavorando in questo senso con il potenziamento di strumenti come il credito d’imposta e le fonti di finanziamento alternative al credito bancario come il private equity e il venture capital. Negli ultimi quattro anni questi fondi hanno investito in Italia oltre 10 miliardi di euro ma solo il 10% è stato destinato ad aziende meridionali.
Per consentire al Mezzogiorno di emergere dobbiamo impegnarci in una duplice azione: formazione delle imprese sui nuovi strumenti e informazione sul potenziamento delle agevolazioni di natura fiscale. Significativo in tal senso il beneficio per gli investimenti che arriva fino al 35%per le medie e fino al 45% per le piccole.
Confindustria si sta impegnando molto in cultura: è un motore di sviluppo?
Il nostro Paese ha un patrimonio artistico e culturale unico, forse il più bello al mondo. Le nostre imprese e i nostri prodotti ne sono il frutto. Il mondo reclama il made in Italy. L’anno scorso all’Assemblea ha preso la parola il ministro Franceschini. È stata la prima volta, e da allora abbiamo deciso di avviare delle iniziative e un percorso di collaborazione tra pubblico e privato per lanciare il brand Italia. Nel 2019 Matera sarà capitale europea della cultura e stiamo lavorando per creare un progetto su quest’evento.
È preoccupato della deriva nazionalista e protezionista che sembra prevalere nel mondo?
C’è molta disaffezione e sfiducia e si sta diffondendo l’idea che chiudersi in una nuova autarchia sia la soluzione per salvarsi. I fondamentali stessi dell’Europa sono messi in discussione. Per quanto ci possa essere la necessità di una riflessione, di ripensare il modello, di mettere in discussione i Trattati, il protezionismo non è la soluzione. Per questo ci siamo mobilitati molto con i nostri colleghi europei a partire da ottobre dello scorso anno a Bolzano e poi a Berlino all’inizio di questo per confrontarci con la Bdi, la Confindustria tedesca, su temi rilevantissimi come la garanzia dei depositi bancari trovando una sintonia di vedute molto importante.
Abbiamo ospitato in seguito a Roma incontro con BusinessEurope, la federazione delle Confindustrie Europee presieduta da Emma Marcegaglia, e quindi a fine marzo il B7 che riunisce le organizzazioni industriali dei Paesi del G7. Qui è utile segnalare due risultati particolarmente interessanti: il primo è che il presidente dell’Associazione americana ha firmato con tutti noi un appello contro il protezionismo; il secondo è la condivisione di un’idea di Industria 4.0 per una Società 4.0. Il che significa l’accettazione di quello che in Italia stiamo dicendo da tempo e che vale la pena ripetere: considerare la crescita non come fine, ma come precondizione per ridurre diseguaglianze e povertà.