L’Europa affronta l’ennesima crisi, forse questa volta la più profonda dalla sua creazione. Per la prima volta nella sua storia un paese, per di più importante come il Regno Unito, è in procinto di lasciare l’Unione europea. Quali sono le sue valutazioni?
Abbiamo accolto con molto stupore e rammarico il risultato del referendum che ha decretato la vittoria del fronte del “leave”. Ora si aprono nuovi e incerti scenari per tutto il continente. Qualunque sia il tenore e la tempistica dei negoziati l’Unione europea e i governi devono reagire rapidamente, guardando avanti e trasformando questo grave passo falso in un’opportunità in grado di costruire un’Europa più robusta e competitiva, che possa creare valore aggiunto per le imprese e i cittadini.
Tutte le grandi sfide che oggi ci troviamo ad affrontare (sicurezza, migrazioni, cambiamenti climatici, sviluppo economico e sociale, ecc.) hanno una dimensione internazionale. Solo lavorando insieme a livello europeo possono essere trovate soluzioni efficienti. La campagna referendaria inglese ha avuto il merito di aprire un dibattito sul futuro dell’Unione europea e, mi sento di dire, che il sentimento di appartenenza ha comunque prevalso, con la maggioranza dei cittadini europei desiderosi che il Regno Unito restasse nell’Ue.
Dobbiamo prendere atto, però, del fatto che da tale confronto è emersa la necessità di cambiare un’Europa che non sta dando risposte concrete ai cittadini. È il momento di ripensarne il modello con cessioni di sovranità in cambio di crescita, anche a costo di cambiare i Trattati. L’Europa deve dare spiegazioni economiche per evitare l’effetto domino negativo e prediligere la crescita piuttosto che l’austerità per diventare più politica, competitiva ed efficiente.
Detto ciò, noi continuiamo a vedere l’orizzonte dell’integrazione europea come un’opportunità e non come un fardello perché soltanto un’Europa unita può assicurare quella prosperità e solidità che sta a cuore alle famiglie e alle imprese europee. Confindustria continuerà a fare sentire la sua voce per costruire l’Unione europea in cui crede.
A diciotto mesi dal lancio del Piano Juncker, qual è la valutazione di Confindustria sui risultati ottenuti fino ad oggi dal Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), soprattutto per quanto riguarda l’Italia?
A diciotto mesi dal lancio del Piano la nostra valutazione rimane la stessa: si tratta di un importante passo in avanti per il rilancio della crescita al quale, però, occorre farne seguire molti altri. In meno di un anno il Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis) è riuscito ad attivare investimenti per 100 miliardi di euro nell’economia reale mantenendo fede a quanto promesso, ma siamo ancora ben lontani dai livelli pre-crisi e soprattutto dai livelli necessari per proiettare la nostra economia verso una ripresa sostenibile.
Se vogliamo che la nostra economia torni a correre, è necessario un vero e proprio cambio di paradigma nel quale la spesa pubblica cessi di essere additata sempre e solo come spreco per essere vista come componente strategica del Pil. Un cambio di prospettiva che, in prima battuta, dovrebbe concretizzarsi nello scorporo della spesa pubblica produttiva dal calcolo del deficit.
In attesa che maturi il consenso intorno a quella che sarebbe una vera “rivoluzione copernicana”, rimane fondamentale continuare a collaborare con Commissione e Bei per sfruttare al massimo le opportunità di investimento previste dal Feis. L’Italia, già in questa prima fase, ha saputo ottimizzare gli spazi del Feis grazie soprattutto all’attività svolta Cdp in diversi ambiti e in particolare con riferimento alle misure di sostegno alle pmi. Grazie ai finanziamenti del fondo ha potuto, infatti, siglare 28 accordi con intermediari finanziari per un totale di 353 milioni di euro che dovrebbero riuscire a mobilitare investimento per 7,8 miliardi a beneficio di 44.840 pmi e startup.
In questa prospettiva Confindustria non può che supportare la volontà della Commissione di rimpolpare la “finestra pmi”, le cui risorse sono agli sgoccioli a solo un anno dalla crea-
zione del Feis. Questo, però, a patto che le risorse non vengano nuovamente attinte da programmi come la Cef o Horizon 2020, già fortemente sottodimensionati rispetto ai fabbisogni reali.
Inoltre, nella prospettiva di un suo prolungamento, occorre iniziare a ragionare sulla ridefinizione delle singole policy in modo che esse tengano conto delle priorità dell’industria italiana e delle iniziative di politica industriale adottate dal governo.
Parliamo ora di politica industriale. Come giudica fino ad ora l’azione della Commissione Juncker in questo ambito?
Grazie agli sforzi intrapresi negli scorsi anni per rimettere al centro dell’agenda politica europea la competitività del sistema industriale e dare una risposta alla crisi economica, i temi della reindustrializzazione dell’Europa sono stati oggetto di specifiche proposte di azione da parte della Commissione, sostenute anche al più alto livello politico da parte del Consiglio europeo. Con l’insediamento della nuova Commissione presieduta da Jean Claude Juncker, crescita e promozione degli investimenti sono stati indicati come la priorità numero uno con l’obiettivo di integrare una dimensione “competitività industriale” nelle singole iniziative strategiche.
Tuttavia, in questo nuovo approccio il focus sul concetto di politica industriale europea é venuto meno: il tema della centralità dell’industria e l’esigenza di disporre di un quadro di riferimento integrato sulla politica industriale europea sembrano scomparsi dall’attuale agenda politica. Ad esempio nella Strategia per il Mercato Unico Digitale, l’attenzione al futuro sviluppo della manifattura è un elemento positivo, ma appaiono evidenti i limiti di un simile approccio e la necessità di disporre di un quadro di riferimento più ampio che tocchi tutti i comparti dell’industria e non solo quello digitale. Dopo tutti gli sforzi che sono stati compiuti negli anni passati e proprio adesso che si registrano i primi segnali di ripresa è necessario intervenire per irrobustire i timidi passi che l’Europa sta compiendo sul cammino della crescita promuovendo una vera Agenda europea per la Competitività, riportando il tema della centralità dell’industria in cima alle priorità strategiche dell’Ue e operando per un quadro di riferimento che guardi alle specifiche iniziative politiche in modo coerente e coordinato, puntando alla creazione di condizioni favorevoli alla vita delle imprese e contrastando interventi legislativi con impatti negativi sulla competitività.
La Commissione europea ha recentemente lanciato un nuovo piano volto a favorire un percorso di trasformazione verso un’industria 4.0. Qual è il suo giudizio sulle misure previste dal piano e quale ruolo ritiene che l’Italia possa o debba giocare in questa partita?
L’Europa ha giustamente individuato nel ritardo della digitalizzazione dell’industria una minaccia per la competitività industriale europea nel lungo termine. La necessità di un’accelerazione ha spinto la Commissione europea a porre il tema in alto nell’agenda Ue e a presentare, il 19 aprile 2016, un’articolata strategia che punta a mobilitare 50 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati nei prossimi 5 anni con l’obiettivo di sostenere le imprese, di tutti gli Stati membri, di ogni settore e dimensione, in questa transizione al digitale.In un tale scenario, l’Italia non può più permettersi ritardi. È ormai improrogabile la definizione di un piano nazionale per lo sviluppo dell’industria 4.0 che sia in linea con la strategia della Commissione. Il nostro paese non può, infatti, correre il rischio di sganciarsi dal treno europeo che, capitanato dalla Germania, procede ormai ad alte velocità, e dovrà assicurare una partecipazione attiva (governo, leader industriali e parti sociali) nella governance del Piano d’Azione Ue.
L’audizione di qualche settimana fa su Industria 4.0 del ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda presso la Camera dei Deputati lascia ben sperare e dimostra che il nostro governo ha finalmente compreso la necessità di definire una strategia coerente di politica industriale, che incorpori l’approccio Industria 4.0 e che sia in grado non solo di sostenere la vocazione manifatturiera del paese, ma anche di governare le trasformazioni della società.
Per le imprese e per la società intera si tratta, infatti, di avviare una riflessione su come declinare a livello nazionale il piano d’azione europeo, sulle potenzialità di un nuovo modello di manifattura e sugli interventi necessari nel breve e nel medio-lungo termine affinché il sistema produttivo sia protagonista del cambiamento tecnologico.
Confindustria, con il sistema associativo, sta lavorando alla “sensibilizzazione” del tessuto imprenditoriale per far conoscere le potenzialità della digitalizzazione dell’industria e le best practices presenti a livello nazionale. Ma se l’azione di sensibilizzazione è fondamentale, ad essa deve accompagnarsi una serie di misure, alcune più generali di politica industriale e altre più specifiche, per far sì che il sistema industriale del paese, da un lato, sia in grado di declinare adeguatamente il modello di Industria 4.0, cogliendone le opportunità e le potenzialità, ma, dall’altro, riesca a portare avanti un modello di sviluppo comunque incentrato sull’innovazione e sulla conoscenza. Proprio sul fronte del trasferimento della conoscenza, sarà senz’altro importante il ruolo dei Digital Innovation Hub, dove le imprese possano cominciare a sviluppare nuove soluzioni e modelli di business, conoscere le soluzioni esistenti e individuare le competenze e le tecnologie da acquisire in tutte le fasi della creazione del valore.
Confindustria è sempre stata a favore di un “Made in” europeo. Ora però il processo di approvazione è fermo in Consiglio. Secondo lei quale può essere la strada da percorrere per superare lo stallo?
La situazione rimane “surreale”. Non si può attendere ancora: il problema purtroppo è rappresentato dalle differenti concezioni di “fare impresa” da parte degli Stati membri dell’Unione, ma anche dal fatto che alcuni paesi non sono disposti a scendere a compromessi nonostante la proposta sulla misura di etichettatura obbligatoria sia in discussione dal 2003.
L’Italia ha accettato l’idea di un’applicazione della misura legislativa a quei settori che si sono espressi favorevolmente: calzature, ceramica, tessile, mobili e oreficeria. Ritengo che i paesi dell’Unione europea debbano prendere in seria considerazione la questione del Made in, poiché in un contesto come quello attuale, una “guerra” – quasi – “di logoramento” non giova a nessuno: alle aziende in primis, ma neanche alla credibilità dei paesi europei e dell’Unione stessa.
Come giudica l’avanzamento del dibattito in corso a livello Ue sull’importante questione della concessione del Mes alla Cina?
Dopo mesi di grande attivismo, che hanno visto Confindustria impegnata in prima linea, anche all’interno di Businesseurope (la Confindustria europea), su questo tema di importanza strategica per il futuro dell’industria europea, lo scorso 13 maggio anche il Parlamento europeo si è finalmente espresso in maniera estremamente chiara, votando a larghissima maggioranza una risoluzione che esprime ferma opposizione alla concessione del MES alla Cina.
Un risultato, questo, che va nella direzione auspicata, oltre che da Confindustria, anche dai sindacati e – cosa molto importante – dal governo italiano. La Cina non è un’economia di mercato: non lo è né di fatto – basti pensare all’attuale crisi che sta attraversando il settore siderurgico mondiale a causa dell’invasione di prodotti cinesi a basso costo – né di diritto. Come giustamente ha evidenziato la risoluzione del Parlamento europeo, la Cina soddisfa solo uno dei cinque criteri stabiliti dall’Ue, nel rispetto della normativa OMC, per essere considerata un’economia di mercato, e pertanto, finché non saranno soddisfatti tutti i criteri, è opportuno che si utilizzi una metodologia “non standard” nel calcolo dei margini di dumping, dando così pieno valore giuridico alle disposizioni del Protocollo di adesione della Cina all’OMC che restano in vigore dopo dicembre 2016.
Il riconoscimento del MES comporterebbe invece l’obbligo di utilizzare costi e prezzi cinesi, spesso distorti, per calcolare il dumping, di fatto annullando la possibilità di usare lo strumento antidumping contro le pratiche commerciali sleali cinesi e mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro e la sopravvivenza di intere filiere produttive. Come noto, la prima mossa sulla questione spetta alla Commissione europea, che non si è ancora pronunciata sul tema. Il mio auspicio è che questa tenga in considerazione la posizione espressa dal Parlamento.
Sui temi energetici e ambientali un dossier molto importante è quello del sistema europeo di scambio di quote di emissione di CO2 (ETS). A luglio 2015, la Commissione ha presentato una proposta di revisione, quali sono le priorità di Confindustria e che cosa si aspetta dai negoziati attualmente in corso?
La Direttiva sullo scambio di quote di emissione, in vigore dal 2005, ha impatti enormi sul nostro comparto manifatturiero. In Italia sono coinvolti 1.300 impianti – in Europa 11.000 – nei settori dell’acciaio, alluminio, chimica, carta, vetro, gomma, alimentare, che coprono circa il 70% del manifatturiero nazionale. Il Consiglio Europeo ha deciso ad ottobre 2014 che l’Ue dovrà ulteriormente ridurre le emissioni di CO2 del 40% entro il 2030 rispetto a livelli del 1990. Questo implica per l’industria una riduzione del 43% rispetto ai livelli del 2005, a fronte di riduzioni già avvenute, che in molti settori sfiorano il 15-20%.
Per questo, oggi e nel prossimo decennio i margini di efficienza nell’industria sono limitati, a meno che non si trovino tecnologie breakthrough che hanno costi molto elevati o non si riduca la produzione, che per noi significherebbe un danno economico enorme. Inoltre, nonostante a Parigi si sia raggiunto un accordo globale, ci sono ancora molte incognite sui tempi e le modalità della ratifica, il che significa che al momento non sappiamo per quanto tempo ancora l’industria europea si troverà quasi da sola a sostenere un impegno ambientale e a pagarne gli impatti sulla competitività globale, cioè rischio di delocalizzazione, perdita di quote di mercato, posti di lavoro, know how e pil.
In vista del negoziato europeo in corso, noi chiediamo che si prevedano misure efficaci e durature di protezione dell’industria italiana ed europea dal rischio di delocalizzazione e che si ponga rimedio anche a distorsioni del mercato interno generate dalla stessa Direttiva, come quelle sulle compensazioni dei costi indiretti.