Durante gli anni di crisi l’export ha permesso a molte imprese italiane di resistere e, in alcuni casi, anche di crescere. Come incoraggiarle a vedere l’export come un’opportunità?
I mercati internazionali pongono sfide stimolanti al nostro sistema imprenditoriale, in termini di innovazione (sia del prodotto che del processo di produzione), competitività e produttività. inoltre, secondo alcune recenti analisi, le aziende internazionalizzate hanno visto aumentare il proprio fatturato di oltre un quarto tra il 2010 e il 2017 (+ 26,3%), mentre nel 2017 le aziende operanti solo sul mercato interno non avevano ancora recuperato i livelli di fatturato del 2010 (- 3,3%). L’export ha attutito gli effetti della crisi e sta trainando il percorso di crescita non solo delle singole imprese, bensì dell’intero Paese.
Cosa serve ad un’impresa, in particolare una Pmi, per internazionalizzarsi? Come può supportarle il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale?
L’internazionalizzazione non può essere improvvisata ma spesso le Pmi non hanno strutture appositamente formate e dedicate all’impostazione e gestione del processo di internazionalizzazione. in questi casi, sapere che esistono interlocutori (ambasciate, uffici ice, Camere di Commercio, Sace e Simest) a cui rivolgersi per essere sostenuti sui mercati esteri è fondamentale. La Farnesina fornisce alle imprese, direttamente e attraverso ambasciate e consolati, un sostegno di tipo istituzionale, molto importante per la partecipazione a gare, la risoluzione di contenziosi, la facilitazione di contatti con interlocutori istituzionali e autorità locali. E un orientamento informativo alla luce dei nostri interessi all’estero, come ad esempio un quadro sulle condizioni di sicurezza, dinamiche politiche, congiuntura economica, presenza di altri soggetti istituzionali, caratteristiche della comunità italiana, eventuali attività della cooperazione allo sviluppo e così via. Disponibile, inoltre, un’attività di market intelligence su opportunità commerciali e industriali, piani di investimento, commesse pubbliche, ecc., sulla base di rapporti con i decisori politici ed economici che la diplomazia stabilisce sul terreno. Altre attività sono forse meno visibili, ma altrettanto rilevanti: ad esempio, gli interventi per l’eliminazione di barriere non tariffarie ai mercati, come quelle nel settore agroalimentare, o la tutela di interessi economico-commerciali italiani nelle sedi comunitarie. All’ambasciatore spetta anche il coordinamento di tutti i soggetti del sistema pubblico italiano all’estero che si occupano di internazionalizzazione, come gli uffici ice e quelli del gruppo Cassa depositi e prestiti (Sace/Simest), portando avanti un’azione di promozione e tutela degli interessi delle imprese italiane in maniera sempre più integrata ed efficace.
Quali possono essere le sinergie attivabili tra il Maeci e associazioni come Confindustria?
Le associazioni imprenditoriali sono per noi un canale fondamentale di dialogo con le imprese: già da diversi anni si è creato un circolo virtuoso che lega la Farnesina alle associazioni come Confindustria. insieme valutiamo le priorità in tema di internazionalizzazione, organizziamo missioni di sistema all’estero, country presentation e roadshow in italia, e ci confrontiamo sui maggiori dossier internazionali che hanno effetti concreti sul destino delle nostre imprese. Lo facciamo quotidianamente, nell’ambito della cabina di regia per l’internazionalizzazione che la Farnesina presiede con il ministero dello Sviluppo economico e che comprende i maggiori attori pubblici e privati che si occupano di internazionalizzazione.
Negli ultimi anni alcune note imprese italiane sono state oggetto di acquisizione straniera. Il saldo tra aziende che passano in mano estera e quelle che diventano italiane è in equilibrio?
È vero che la stampa, nazionale ed estera, riserva particolare attenzione alle acquisizioni di imprese italiane. Ciò è dovuto alla forza dei nostri marchi e alle lunghe e affascinanti storie di eccellenza di molte imprese italiane, che si prestano a narrazioni particolarmente suggestive. Lo stesso succede quando i marchi stranieri acquisiti da imprese italiane sono altrettanto noti: penso alla recente acquisizione di Essilor da parte di Luxottica o a quella di Endesa da parte di Enel.
Ci sono, però, anche tantissime acquisizioni messe a segno da imprese italiane che non riscuotono altrettanto interesse, perché in settori meno glamour della moda o dell’agroalimentare o perché le società in gioco non sono note al grande pubblico. Fatta questa premessa, può essere utile riportare alcuni dati tratti dal Rapporto ice “italia Multinazionale” 2017 elaborato su Dati Reprint – Politecnico di Milano, secondo i quali, a fine 2015, le imprese italiane partecipate da multinazionali straniere risultavano essere 12.743, con 1.210.239 dipendenti e un fatturato complessivo pari a circa 573 miliardi di euro. Al contempo, le imprese italiane con partecipazioni in società estere, sempre al 2015, erano 13.907, con interessi in 35.210 società estere, 1.628.299 dipendenti e un fatturato pari a 509 miliardi. Come si può facilmente riscontare tali dati mostrano un sostanziale equilibrio.
Digitale e internazionalizzazione: quanto il ritardo italiano sul primo aspetto condiziona l’efficacia del secondo?
I primi due mercati digitali al mondo sono Stati uniti e Cina, paesi che rappresentano per noi i primi due sbocchi fuori dal continente europeo e valgono il 10% del nostro export totale (circa 44 miliardi di euro). Di contro, se parliamo di export digitale, ci sono ampi margini di crescita per il made in italy. infatti, solo circa il 6% del nostro export di beni di consumo passa da canali digitali e la percentuale si riduce se consideriamo solo quello diretto, ossia realizzato sui portali delle stesse imprese, su siti di retailer o su marketplace italiani. Rafforzare i canali di vendita digitali è, dunque, fondamentale e piani speciali dedicati all’e-commerce sono inclusi nel piano straordinario per il made in italy messo a punto con l’Agenzia ice.