L’Istat certifica un calo di nascite e una popolazione che diminuisce e invecchia. Come invertire il trend?
L’invecchiamento della popolazione dipende da diversi fattori: l’allungamento della vita media, la diminuzione delle nascite e l’andamento dell’immigrazione. Le migrazioni più recenti sono prevalentemente migrazioni da “spinta” più che “da scelta”, quindi un fenomeno per sua natura molto più complesso da governare. L’allungamento della vita è forse il più grande successo del secolo scorso e, nonostante alcune oscillazioni che sono frutto della fragilità intrinseca di una popolazione con una rilevante quota di grandi anziani, non è atteso un suo ridimensionamento nei prossimi decenni.
La componente più suscettibile di intervento e modificazione è quelle delle nascite. Dalle nostre indagini risulta chiaramente che il numero desiderato di figli (in media due figli per donna) è stabilmente al di sopra del numero realizzato (appena 1,3 figli per donna nel 2017). Questo documenta un gap nelle scelte riproduttive che è frutto di ostacoli sociali ed economici alla realizzazione dei livelli desiderati di fecondità. Più servizi, più incentivi, più flessibilità, migliore redistribuzione dei carichi nelle coppie sono gli elementi che possono avvicinare il livello realizzato e il livello desiderato di fecondità.
Questo ha conseguenze sul nostro sistema pubblico di welfare?
Le tendenze in atto stanno ponendo un carico maggiore sui sistemi previdenziali, assistenziali e sanitari – e sono destinate a farlo sempre di più. I cambiamenti però non riguardano solo l’entità della spesa, ma anche i bisogni espressi dai cittadini. Ad esempio, l’allungamento della vita media ha posto in primo piano i problemi di salute di natura cronico-degenerativa.
Ci si attende che nel 2024 quasi 13 milioni di persone saranno affette da almeno tre patologie croniche, numero che crescerà di un altro milione (superando i 14 milioni) nel 2034 mentre oggi sono circa otto milioni e mezzo.
Queste malattie si associano frequentemente alla presenza di gravi difficoltà nello svolgimento delle più semplici attività quotidiane e già oggi circa il 58% degli anziani in queste condizioni avverte la necessità di un maggiore aiuto. Quali strade prenderà il welfare pubblico per fronteggiare queste esigenze sarà ovviamente frutto delle scelte di policy, che dovranno anche tenere conto dei problemi di sostenibilità finanziaria. Per quanto risulta dai nostri dati, tra le tendenze in atto stiamo osservando un’espansione di forme di welfare alternative al sistema pubblico.
Cosa possono fare le imprese, in particolare le Pmi?
Il progressivo invecchiamento della popolazione ha sicuramente un effetto di depotenziamento sia del capitale umano, sia della capacità imprenditoriale nel nostro Paese. Le risorse umane più giovani sono infatti quelle che incorporano con maggiore intensità nuove conoscenze, sono maggiormente orientate all’innovazione e sono infine più spinte a intraprendere attività in proprio.
Per contrastare questa tendenza è necessario passare da un approccio estensivo, in cui si considerava come scontata la disponibilità di manodopera giovane e qualificata e di un’ampia base imprenditoriale, ad uno intensivo, basato sulla scarsità e quindi sulla valorizzazione di questi fattori, focalizzando l’attenzione delle policy su percorsi formativi orientati all’innovazione utile all’upgrading tecnologico e organizzativo del nostro nuovo sistema produttivo (industria 4.0), nonché al supporto di nuove imprese a elevato potenziale di creazione di valore aggiunto e creazione di posti di lavoro qualificati. Infine, va considerato il crescente peso degli stranieri nella veste di nuovi imprenditori e anche il loro ruolo di “integratori” sociali. Questi temi saranno oggetto di ulteriori approfondimenti nell’ambito del censimento permanente sulle imprese, primo
ciclo di rilevazione previsto ad aprile 2019.
Nel Rapporto Bes l’Istat ha introdotto le “12 dimensioni del benessere equo e sostenibile”, tra cui “salute”, “istruzione e formazione” e “lavoro e conciliazione tempi di vita”. Sono anche nei piani di welfare aziendale?
Sicuramente. Nel dominio salute, l’attenzione può essere concentrata sul favorire, all’interno dell’impresa, degli stili di vita adeguati, in grado di contrastare l’eccesso di peso, il fumo, l’alcool, la sedentarietà e favorire una buona alimentazione.
Rispetto all’istruzione è la partecipazione alla formazione continua da parte delle persone di 25-64 anni. Il dominio lavoro e conciliazione tempi di vita contempla diversi indicatori che possono collegarsi, in modo diretto o indiretto, al welfare aziendale.
Anche quello sulla soddisfazione del lavoro svolto potrebbe rappresentare un target diretto, così come il tasso di infortuni mortali e inabilità permanente. Ricordo che l’eccesso di peso e il rapporto tra tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con figli in età prescolare e delle donne senza figli fanno parte del set di 12 indicatori che il Governo dovrà inserire nel Def con la previsione sul loro andamento.
Ritiene che un impegno delle aziende, sostenendo l’istruzione, possa favorire una maggiore mobilità sociale?
La diffusione dei sussidi mirati ai giovani studenti è uno strumento che, nelle altre maggiori economie europee, appare aver favorito i progressi nel numero di laureati, in particolare per chi proviene da famiglie con livelli d’istruzione più modesti. L’impegno delle aziende attraverso l’erogazione di borse e sussidi può quindi senz’altro contribuire a migliorare i risultati di istruzione per i figli dei dipendenti. Anche la formazione potrebbe essere un terreno d’elezione e, in senso più ampio, la responsabilità sociale delle imprese, per esercitare una funzione di volano nell’innalzamento delle competenze, con ritorni diretti sulla qualità della forza lavoro e indiretti, estendendo le opportunità formative anche ad ambiti non strettamente collegati all’attività d’impresa. Inoltre, e parallelamente, le imprese possono contribuire, come in parte già fanno, alla formazione degli studenti attraverso i tirocini, ampliandone l’offerta e facendo uno sforzo progettuale per la loro qualità.
Il welfare aziendale può favorire l’integrazione dei lavoratori stranieri?
Le imprese possono avere un ruolo nel favorire l’integrazione e le opportunità di crescita dei lavoratori a diversi livelli, anzitutto attraverso gli effetti positivi sul senso di appartenenza e di comunità che originano dal lavoro stesso. È bene ricordare che tra gli stranieri l’incidenza della povertà è molto maggiore, così come tra i giovani residenti nati all’estero sono più elevati gli abbandoni.