Comincia così la conversazione con Sandro Boscaini, presidente e amministratore delegato di Masi Agricola, storica azienda vitivinicola della Valpolicella da 12 milioni di bottiglie all’anno e un fatturato vicino ai 60 milioni di euro. Celebre per la produzione dell’Amarone, a metà degli anni Novanta ha messo radici in Argentina, nella regione di Mendoza, creando nella valle di Tupungato l’azienda “Vigneti La Arboleda”, 160 ettari di terreno per oltre due terzi coltivati a vigneto.
Dietro la sua scelta di andare all’estero c’è prima di tutto un orgoglio culturale.
Certamente. L’Italia è ricca di uve e di metodi di lavorazione originali. In Veneto ad esempio, e in particolare nel veronese, è praticata da generazioni la tecnica dell’appassimento su graticci di bambù. Ci siamo detti: perché non valorizzarla e in un certo senso diventarne gli alfieri nel mondo? E così, con il nostro gruppo di esperti, ci siamo messi alla ricerca di territori che avessero le stesse caratteristiche del nostro Veneto, in fatto di microclima e proprietà fisico-chimiche del terreno. Dopo alcuni tentativi in varie parti del mondo – Ungheria, Australia, Oregon – abbiamo individuato nella Valle di Tupungato, regione di Mendoza, il territorio più adatto. Nel 1996 abbiamo acquistato i terreni, piantandovi una quindicina di varietà: insieme a quelle autoctone argentine come Malbec e Torrontés, abbiamo inserito le uve venete del Corvina, Corvinone e Pinot Grigio. Una prima produzione sperimentale si è fatta nel ’99, mentre quella ufficiale è partita nel 2001. Oggi in Argentina produciamo all’incirca un milione di bottiglie all’anno, destinate prevalentemente ai mercati esteri quali Europa, Stati Uniti e Giappone, oltre naturalmente a tutto il Mercosur.
Quali fattori hanno giocato a favore del vostro successo?
Le dirò che a Mendoza mi sono sentito subito a casa. Metà della popolazione ha radici italiane, se non addirittura venete. I nostri connazionali conoscevano già il sistema della vite a pergola, avendolo appreso dai nonni o dai genitori. Come dico sempre, noi produciamo vini dalla natura argentina con un forte stile veneto.
In più, va detto, l’approccio al settore è cambiato. Lo stesso vino argentino negli ultimi anni ha fatto passi da gigante, trasformandosi da vino amorfo e di massa a vino di qualità. Merito anche dei molti investimenti arrivati dall’estero – statunitensi, francesi, tedeschi e soprattutto cileni – che hanno nobilitato il settore.
Tutta la regione di Mendoza oggi è un polo innovativo ed è conosciuta anche per il turismo legato al vino, che si è sviluppato nel frattempo. Vi sono cantine molte belle, firmate da architetti prestigiosi, e noi stessi abbiamo voluto creare una struttura ricettiva accogliente, che ricordasse le tipiche ville rurali venete, le barchesse.
Per quanto riguarda la produzione, siamo riusciti a fare accreditare le nostre uve presso l’Inta (Istituto nacional tecnologia agropecuaria, ndr) iscrivendole nel registro delle uve nobili. In Argentina la legislazione del settore è rigida e molto burocratica, ma venendo dall’Italia non ci siamo trovati impreparati.
Qual è stato l’ostacolo principale?
Far riconoscere il processo dell’appassimento e poterlo applicare prima della vinificazione. Introdurre questo metodo non è stato semplice perché la tradizione argentina nel trattamento delle uve è differente e prevede che la vinificazione avvenga con uve fresche, appena raccolte. Nonostante ciò, siamo riusciti ugualmente a portare a casa il risultato. In generale, è fondamentale avere un referente tecnico argentino, che rappresenti l’azienda di fronte alle autorità sanitarie e agli organismi di controllo locali.
Consiglierebbe a un collega di venire in Argentina?
Sotto il profilo tecnico non avrei dubbi. Il terreno, il clima e le competenze in loco ne fanno una sorta di Eldorado del vino e il costo dei terreni è ancora contenuto.
Come altrove, vale una raccomandazione: occorre poter contare su una presenza assidua di personale italiano che garantisca la supervisione tecnica dei processi. Ultimamente siamo stati più fortunati e abbiamo potuto mandare diversi giovani, molto preparati, che si sono trattenuti anche per qualche anno.
L’integrazione con la casa madre resta totale perché l’area commerciale e quella amministrativa – nonché la supervisione tecnica, per l’appunto – fanno capo a Masi Agricola, qui in Italia.
La sua azienda è sinonimo di Amarone e lei stesso è stato definito “Mister Amarone” nel libro che la giornalista inglese Kate Singleton le ha dedicato. Fino a vent’anni fa tuttavia, questo vino dalle importanti radici storiche non era così conosciuto. Quale ruolo ha avuto la comunicazione nel promuoverlo?
L’Amarone è nato innanzitutto dal riconoscimento delle potenzialità tecniche e commerciali che questo vino era in grado di esprimere, un vino che già negli anni Ottanta si faceva da >
generazioni. Andava solo smussato dei suoi aspetti più aspri ed antichi; andava trasformato, come dico spesso, in un “vino moderno dal cuore antico”, un vino capace di tenere testa a un Barolo, a uno Chateaux di Bordeaux, ai Cabernet californiani.
Sotto il profilo della comunicazione lo abbiamo proposto come un esempio di vino dalla personalità veneta, un grande vino regionale italiano. La nostra idea, infatti, è che il vino italiano sia in realtà un bouquet di vini, ciascuno con il proprio colore e profumo, e che la radice regionale ne costituisca l’essenza. Noi non abbiamo nulla in comune – né come uve, né come tecniche – con la tradizione toscana, siciliana oppure piemontese, ma tutte insieme contribuiscono a creare quel bouquet del vino italiano. E in questo l’Amarone è il “signore” dei vini del Nordest.
A giugno taglierete il traguardo del primo anno di quotazione sul mercato Aim Italia, frutto anche dell’adesione al programma Elite di Borsa Italiana. In che modo questa scelta ha aiutato il suo processo di internazionalizzazione?
Ci ha dato più forza e autorevolezza sui mercati esteri. Masi Agricola ha una storia di innovazione non solo dal punto di vista tecnico, ma anche da quello della governance, del management e della gestione finanziaria. Siamo stati forse i primi, nel mondo del vino italiano ad aprire il nostro capitale all’estero con l’ingresso di un fondo e questo ci ha consentito di guardare al mercato con uno spirito diverso.
Quindici anni fa abbiamo introdotto la certificazione dei nostri bilanci, siamo diventati più trasparenti. Di lì a poco è nato il programma Elite, che ci è sembrato subito molto stimolante e, quando si è prospettata l’ipotesi di una quotazione, il passaggio non è stato traumatico come avrebbe potuto essere per un’azienda familiare. Credo sia stato premiato il nostro coraggio di essere trasparenti. Mi creda, nel mondo vitivinicolo non succede spesso.
“La Francia ha donato al mondo il Cabernet, il Sauvignon e il Merlot, oggi riconosciuti come vitigni internazionali, e attraverso la sua scuola enologica si è imposta nel mondo non solo come paese produttore, ma anche come paese capace di influenzare il gusto. Perché l’Italia, pur avendo nel settore una cultura altrettanto solida, non lo ha fatto?”