
“Bisogna crederci”. La frase con cui Domenico Colucci, 27 anni, pugliese, co-fondatore e Business Development della startup Nextome conclude l’intervista è la chiave di tutto. Lui e altri due conterranei, Giangiuseppe Tateo e Vincenzo Dentamaro, amici e colleghi alla facoltà di informatica dell’Università di Bari, ci hanno innanzitutto creduto: hanno studiato, lavorato sodo, fatto esperienza in azienda. Sul loro cammino l’incontro con Marco Bicocchi Pichi, ex dirigente con la passione per le startup, il quale ha scommesso nelle loro capacità, investendo un primo “gettone” per far partire il progetto e che oggi è co-fondatore di Nextome oltre che angel investor.
“L’idea è nata in modo casuale – racconta Colucci – eravamo insieme all’interno di un grande mall e ci siamo persi. Disporre di un localizzatore capace di funzionare in ambienti chiusi, cosa che il Gps non fa, ci avrebbe aiutato parecchio. Oltre a rivelarsi utile, ad esempio, per individuare il percorso più breve per raggiungere un determinato negozio”.
Cosa realizzate con Nextome?
Offriamo un sistema software brevettato, in gergo tecnico un Sdk (software development kit, ndr), che può essere installato su qualsiasi smartphone in commercio e permette la localizzazione in ambienti indoor.
In che senso può essere considerato un’espressione del concetto di Industria 4.0?
Applicato alle aziende, semplifica e ottimizza i processi produttivi. Conoscere un dato in tempo reale aiuta a controllare la produzione e a prendere decisioni che possono evitare gli sprechi e aumentare l’efficienza.
A chi lo avete proposto?
Al momento lo adottano principalmente aziende manifatturiere dell’automotive e società che operano nel campo della sicurezza privata, che possono così gestire meglio la turnazione degli agenti e il calcolo delle ore di lavoro. Stiamo ampliando la nostra gamma di prodotti con l’obiettivo di ridurre il consumo energetico nei grandi uffici, dove spesso gli impianti di condizionamento e di illuminazione restano accesi anche in assenza di persone.
Avete provato anche con il settore pubblico?
Inizialmente ci siamo proposti ai musei. Nextome, infatti, permette di costruire percorsi tematici personalizzati, raggiungendo ad esempio soltanto le opere che interessano, e di acquistare contenuti digitali e souvenir.
Nel pubblico, però, sarebbe stato necessario attendere una gara d’appalto e inseguire questo percorso ci avrebbe portato via troppo tempo. In questi anni – l’impresa è stata costituita nel 2014 – dovevamo dimostrare parametri di crescita, incrementare il fatturato. Per motivi strategici, dunque, abbiamo scelto per il momento di concentrarci solo sulle imprese private, che in Italia garantiscono tempi di risposta più rapidi rispetto al pubblico.
E all’estero?
All’estero è differente. In Corea del Sud, per esempio, stanno puntando molto sulle smart city e investono quasi un miliardo di euro all’anno per migliorare la qualità della vita dei cittadini. Lo scorso anno a Busan abbiamo vinto il Busan Metropolitan City Award nell’ambito dello Young Ict Leaders’ Forum.
Nextome è stato apprezzato e in generale le municipalizzate all’estero, oltre ad avere tempi di approvazione più rapidi, hanno un’infrastruttura tecnologica più avanzata in grado di ospitare senza problemi il nostro software.
Avete scelto voi di brevettare il software o vi è stato suggerito?
È stata una decisione nostra e anche abbastanza immediata. Ci siamo documentati sulla Rete e abbiamo capito che poteva essere utile proteggerlo. Il brevetto italiano è del 2013, quindi prima che costituissimo la società. Lo scorso anno abbiamo presentato domanda di estensione in Europa, negli Stati Uniti e a Singapore.
La procedura di per sé non è complicata, specie in Italia. Il problema sono i costi di mantenimento: ogni anno si paga una fee proporzionata ai paesi in cui ha validità e per rendere solido il brevetto è necessario avvalersi di specialisti che possono rispondere alle rivendicazioni o effettuare le ricerche di anteriorità. Se quest’ultima, ad esempio, risulta positiva in un paese, è inutile proseguire.
Quali difficoltà avete incontrato in questi primi anni di attività?
Restando in tema di brevetti, in Italia è un asset ancora poco valorizzato. Se chiedi un prestito in banca, dare in garanzia un immobile conta di più, anche se le cose stanno pian piano migliorando. Del resto, le società che oggi nascono si occupano prevalentemente di software e servizi, ovvero prodotti intangibili.
Qualche difficoltà, poi, c’è nel convincere gli imprenditori. Noi presentiamo il nostro prodotto, raccontiamo cosa abbiamo fatto, siamo molto concreti. Dall’altra parte, però, per integrare la nostra tecnologia bisogna essere disponibili a cambiare parte della propria organizzazione aziendale e qui qualche rigidità c’è. A volte ci sentiamo rispondere che la nostra impresa è troppo giovane. Per questo motivo ci stiamo confrontando anche con multinazionali come Microsoft e Nokia per acquisire quella credibilità che ha fatto crescere tante startup.
Quali sono i prossimi passi?
Fermo restando che in Puglia manterremo la sede legale e operativa, nella quale già lavorano altre quattro persone, vorremmo aprire un ufficio commerciale a Berlino, dove attualmente mi trovo, perché qui il mercato è più ricettivo al tema Industria 4.0. Lavoriamo in un co-working della capitale tedesca, Gtec, uno spazio totalmente gratuito che per metà è anche acceleratore d’impresa. Non vi è nessuna fee di ingresso e si accede presentando una semplice domanda. Selezionano, in genere, startup che hanno già messo a punto un prodotto e che possono essere interessanti per i loro partner. Fino ad aprile questa sarà la nostra base operativa, dove incontrare clienti e partecipare agli eventi che il co-working organizza.
Cosa dimostra la vostra storia?
Che bisogna darsi da fare e avere la valigia pronta perché molte opportunità si colgono altrove. Penso che tante startup siano nate grazie ai voli low cost, oggi vai a Londra o Berlino per fare una presentazione con pochissimo budget, i co-working ti permettono di avere un ufficio con 50 euro e grazie a Uber non hai più bisogno di possedere l’auto.
Noi abbiamo costruito un prodotto da zero e abbiamo scritto da soli il primo brevetto perché non c’erano i soldi per pagare un consulente. Prima di tutto bisogna crederci!