C’è quello giuridico, quello psicologico, quello squisitamente economico e anche quello letterario. E non manca quello dell’opinione pubblica, proposto attraverso i risultati di un’indagine Ipsos condotta da Nando Pagnoncelli. Per un primo ritratto della figura dell’imprenditore, la ricerca del Centro Studi Confindustria offre sei punti di vista articolati negli altrettanti capitoli che compongono la parte iniziale.
Fabrizio Traù elabora l’excursus nella letteratura economica a partire dalla “scuola inglese” con le due posizioni ben distinte di Adam Smith, secondo il quale l’imprenditore si differenzia per l’intenzione che sta alla base del suo agire piuttosto che per la sua capacità di costruire – “egli è un prudent man che entra in un nuovo progetto o una nuova attività essendo ben organizzato e preparato, si muove senza fretta e prendendo ogni volta il tempo che serve per decidere” – e la posizione di Jeremy Bentham, che invece guarda all’imprenditore come ad un soggetto dalle caratteristiche eccezionali.
Si prosegue con John Stuart Mill, Alfred Marshall e John Maynard Keynes, il quale mette in secondo piano l’aspetto del coordinamento e dedica attenzione all’imprenditore nel suo ruolo di investitore. Dopo un accenno alla scuola francese, Traù approfondisce il contributo delle scuole tedesca e austriaca. Con Joseph Schumpeter, ad esempio, viene introdotto il concetto della discontinuità, della rottura di equilibri preesistenti, elemento che porterà sempre più a distinguere il semplice manager dall’imprenditore. Allo studioso austriaco, infatti, “interessa il soggetto che introduce un cambiamento all’interno del sistema economico e non semplicemente dell’impresa”. Con una precisazione importante: “la leadership economica fondata sulla capacità di innovare – afferma Traù – è una cosa del tutto diversa dall’invenzione: le invenzioni sono irrilevanti fintanto che non arriva qualcuno che le applica”.
Al termine dell’excursus storico, l’autore riassume le quattro questioni fondamentali attorno alle quali si è sviluppato il dibattito sulla figura dell’imprenditore: la coincidenza o separazione tra chi procura i capitali e chi decide cosa farne; la misurazione del rischio economico personale; l’introduzione di cambiamenti produttivi e la definizione dell’attività di coordinamento, sia che riguardi la mera routine, sia che interessi la strategia di lungo periodo. Il capitolo si conclude con una definizione di imprenditore proposta dall’autore, nella quale viene esclusa la necessità tassativa di alcuni tratti caratteriali e accanto ad alcune capacità, tra cui quella di guida e di coordinamento, viene posto l’accento su quella di scegliere e di motivare le persone.
Il contributo di Franco Amatori parte invece da una suggestione poetica: l’imprenditore è come Proteo e alla stregua della divinità greca “si presenta in forme continuamente diverse”. In quanto portatori di interessi, ad esempio, sono imprenditori a pieno titolo sia i fondatori di un’impresa, sia i manager imprenditori (si guardi alla General Motors di Alfred Sloan, ad esempio), sia coloro che operano con i venture capital e con i fondi che gestiscono il risparmio, sia gli imprenditori pubblici, il quali si misurano direttamente con il potere politico.
Ma fare impresa non è soltanto avere degli interessi da tutelare: le biografie di Gianni Agnelli e di Leopoldo Pirelli vengono narrate perché dimostrano al di là di tutto la capacità di saper “conservare” l’impresa, mentre Adriano Olivetti incarna “la volontà di creare una comunità a misura d’uomo, armonizzando il luogo di lavoro con gli altri luoghi della socialità, la fabbrica con il territorio”.
Nel complesso, è il capitalismo imprenditoriale a rappresentare, secondo Amatori, la soluzione più efficace per il mondo di oggi e a questo modello ha guardato l’economista statunitense William Baumol, dal quale Amatori trae alcuni suggerimenti per favorirne lo sviluppo: premiare gli imprenditori vincenti non opprimendoli con un fisco troppo pesante e stimolare la nascita di nuove imprese senza colpevolizzare eventuali fallimenti. A questi va aggiunta la ferma condanna dei comportamenti illegali che distruggono ricchezza e il vigilare affinché permangano le migliori condizioni di concorrenza.
Oggi la figura dell’imprenditore sta vivendo una positiva rivalutazione. È l’anima della piccola e media impresa, da cui è nato in Italia il fortunato modello dei distretti; è molto spesso “la figura che sa marciare al passo con le grandi innovazioni tecnologiche, quelle che ci hanno fatto entrare nella Terza rivoluzione industriale”. Con una cautela da osservare quando si pensa a figure come quella di Steve Jobs o Bill Gates: geni dell’Ict senza dubbio, ma imprenditori che hanno potuto costruire su una base fatta di mille e trecento miliardi di dollari di spesa pubblica nel settore in circa 50 anni. “Negli Stati Uniti – conclude Amatori – ha funzionato il triangolo magico Stato-università-impresa. Genio, dunque, ma anche sistema”.
Con Marco Ventoruzzo la riflessione si concentra sugli aspetti giuridici. Nel breve excursus storico con cui prende avvio il capitolo, l’autore dedica spazio alla figura di Lorenzo Mossa, che negli anni Venti fu “tra i primi giuristi italiani a porre l’accento sul fatto che l’imprenditore organizza un insieme di beni e rapporti (tra i quali principe è quello con i lavoratori subordinati) al fine della produzione, e che è proprio questa destinazione funzionale di capitale fisico e umano a caratterizzare l’impresa”. Una definizione quasi scontata, oggi, ma non in quel periodo dove l’analisi dottrinale si soffermava sul diritto di proprietà sulle cose e sulle obbligazioni tra soggetti. Nell’ordinamento italiano la nozione di imprenditore si ritrova nell’articolo 2082 del Codice civile. I quattro aspetti che ne caratterizzano l’attività – il fatto di essere professionale, economica, organizzata e produttiva – sono elementi rintracciabili anche in altre, ma secondo Ventoruzzo quello maggiormente caratterizzante è “l’organizzazione dei fattori produttivi, di capitale e lavoro”; va notato inoltre come nel diritto italiano per definire un’impresa non sia essenziale la presenza del fine di lucro. Elemento presente, invece nell’articolo 2247 del Codice civile relativo alle società, dove il fine dei contraenti è quello di generare e ripartirsi un utile. I concetti vanno dunque tenuti distinti, concluderà l’autore al termine di un ampio ragionamento, ricordando anche come la letteratura giuridica li abbia “frequentati” in modo molto diverso: pochi gli studi recenti di diritto comparato sull’impresa, pressoché sterminata invece la letteratura sul diritto societario.
Con Stefano Castelli e più avanti nel capitolo di Antonio Calabrò e Giuseppe Lupo, entrano in gioco altre discipline, rispettivamente la psicologia e la letteratura. Castelli illustra il modello dei Big Five abitualmente adottato nelle ricerche empiriche per studiare la personalità individuale. Alle cinque componenti – energia, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva e apertura mentale – l’autore aggiunge la propensione al rischio e analizzando “il modo in cui gli imprenditori pensano” sottolinea come peculiare l’alertness, ovvero la capacità di cogliere nell’ambiente le opportunità nascoste. Non trascurabile, ai fini della scelta professionale, è la rappresentazione sociale che, sottolinea Castelli, “non è neutra rispetto allo stimolare il desiderio di diventare imprenditore e a quale tipologia di figura ispirarsi”.
A proposito di modelli, Lupo e Calabrò raccontano con esempi italiani e stranieri come la letteratura abbia generalmente diffidato degli imprenditori e come per gli scrittori “chi si occupa di soldi” non abbia quasi mai “la dignità di assurgere al piano alto delle idee e degli ideali”. Al termine di una passeggiata virtuale che va da Charles Dickens a Honoré de Balzac, da Thomas Mann a Robert Musil, con una parentesi sui fratelli Singer, scrittori di origine ebraica, e sul Verga di “Mastro Don Gesuldo”, Lupo e Calabrò accompagnano il lettore fra le pagine futuriste di Folgore e Buzzi, invitano a ritrovare lo spirito della ricostruzione in quelle di Carlo Bernari e quello del boom economico nella Califfa di Alberto Bevilacqua. La dimensione poetica dell’imprenditore la si ritrova ne “La chiave a stella” di Primo Levi, mentre è Giorgio Soavi a raccontare la figura di Olivetti ne “Il Conte”. Infine, il racconto della crisi e della globalizzazione, che ha in Edoardo Nesi, vincitore del Premio Strega con “Storie della mia gente”, uno dei suoi più fini narratori.
A concludere la prima parte della ricerca è il contributo di Nando Pagnoncelli. Impossibile riassumere la ricchezza di dati offerti dall’indagine. Una cosa è certa, il profilo dell’imprenditore ne esce un poco sbiadito e solo una minoranza degli italiani la ritiene “una figura che favorisce il cambiamento e apporta innovazioni”. Anzi, spesso “appare posta in contrapposizione a quella del semplice cittadino, piuttosto che in posizione sinergica con essa”. Molto dunque resta da fare, soprattutto sotto il profilo della comunicazione.