
Forse perché avevano terminato di cambiare il linguaggio del nostro tempo – introducendovi termini come postare, trollare e friendzonare – i social media hanno essi stessi intrapreso un percorso di radicale cambiamento, un’evoluzione che può definirsi come un passaggio da piattaforme di comunicazione “one-to-many” a canali di interazione “one-to-few” ricalcando in questo una più naturale propensione delle persone a interagire con chi già si conosce più che a conversare con tutti coloro che si incontrano, ancorché virtualmente, per strada. Questa evoluzione è stata eloquentemente illustrata da Adam Mosseri, il responsabile mondiale di Instagram, in un colloquio tenutosi nel mese di agosto: in quella circostanza, Mosseri ha evidenziato come Instagram stia superando il concetto originale di piattaforma social avente al centro un “feed di foto quadrate”: soprattutto gli adolescenti vi trascorrono oggi più tempo comunicando fra loro con i messaggi privati (“Direct Message”) e scorrendo le Storie, la cui pubblicazione può essere circoscritta agli amici più stretti.
Per quanto la cronaca si incarichi ogni giorno di mostrarci gli usi peggiori dei social media, dalle challenges più rischiose alle diverse forme di dipendenza che possono maturarvi, occorre riconoscere che la Generation Z ha sviluppato alcuni anticorpi, come il ricorso a profili chiusi e ad immagini di sé stessi sostituite con avatar, maschere digitali indossate per proteggersi dalla competizione che in molti casi è indotta dalla partecipazione alle piattaforme.
Le implicazioni di questo mutamento sono profonde e molteplici e non sono circoscritte soltanto al modo in cui gli individui interagiscono su Instagram, ma stanno rivoluzionando anche la navigazione sugli altri social network, rendendo così necessaria una rivisitazione delle strategie adottate dalle aziende. Le imprese e i loro social media manager stanno infatti spostando l’attenzione dalla programmazione dei tradizionali post, sempre meno visti, alla produzione di video, prevalentemente in formato verticale, alla creazione di Storie e sviluppando modalità volte a creare, con i relativi costi di gestione, interazioni dirette con i follower nella speranza che ne emergano come clienti e ambassador.
Il precedente paradigma di comunicazione pubblica, anche con i suoi risvolti di gestione dei commenti critici, sta cedendo il passo a forme di interazione più riservate e personali e rendendo i social media dei canali di customer service. Curioso che questo avvenga proprio all’indomani dell’entrata in vigore del Digital Services Act che, in Europa, ha imposto una maggiore trasparenza in merito ai fattori degli algoritmi che determinano quali contenuti sono mostrati nel feed agli utenti, personalizzandone, ma anche limitandone, l’esperienza. Nel momento in cui queste formule diventano più note e controllabili – LinkedIn, ad esempio, rende possibile attivare la visualizzazione puramente cronologica dei contenuti – esse perdono di forza nell’esperienza quotidiana vissuta dagli utenti.
PAROLA D’ORDINE: SPERIMENTARE

ANDREA BOSCARO
La rivelazione di Mosseri si inserisce in una traiettoria comune alle altre piattaforme social: per ovviare a una visibilità sempre più limitata dei post, le aziende su LinkedIn si avvalgono in misura crescente delle nuove funzionalità disponibili per inviare newsletter, organizzare eventi e tenere webinar, spostando l’attenzione di chi gestisce i profili dalla mera raccolta di follower all’animazione di progetti di lead generation volta a promuovere, arricchire e qualificare la rete dei contatti così da farvi leva in azioni commerciali future. Sul piano delle metriche, ragionare dunque in termini di follower rischia di mancare l’obiettivo o, peggio, condurre a un’allocazione di risorse e sforzi improduttiva e non lungimirante.
Anche per questo, le aziende sperimentano forme di coinvolgimento di dipendenti e collaboratori, sia per massimizzare la visibilità della propria comunicazione verso i collegamenti di questi ultimi (strategie di “Employee Advocacy”) sia per raccontare, anche a possibili candidati, l’organizzazione dal punto di vista delle persone che vi lavorano (strategie di “Employer Branding”).
L’approccio richiesto alle imprese dai social media è pertanto passato da un orientamento di tipo editoriale, con tutte le complessità legate a gestire contenuti e calendari editoriali, ad uno più vicino alle sensibilità del marketing rientrando nell’area di comfort di chi può guardare alle piattaforme social con la lente del classico funnel.
La pubblicità, le collaborazioni con editori e creatori di contenuti e la valorizzazione anche offline dei profili social che le imprese possono sviluppare emergono, dunque, come leve cruciali di awareness, seguite dalla gestione dei contenuti che mira a rafforzare la consideration e a stimolare azioni e conversioni misurabili attraverso le iniziative di coinvolgimento online sopra menzionate. Come illustrato dal modello del funnel di marketing, le attività non si fermano qui. Proprio sui social media, grazie alla condivisione di informazioni e alle campagne di riattivazione denominate “Custom Audiences”, si possono realizzare attività di Loyalty e Advocacy.
COMPETIZIONE A COLPI DI VIDEO
La confessione di Mosseri ha poi sottolineato il ruolo dei video nell’esperienza che gli utenti hanno di Instagram, sia come brevi contributi visualizzati fra le Storie sia come video di più lunga durata pubblicati con il formato dei Reels. È il portato della competizione da parte di TikTok e di piattaforme emergenti come BeReal, in una gara fra nuovi media il cui successo dipenderà anche dalla capacità di distribuire risorse e fornire ai content creators, i veri protagonisti del panorama social, strumenti efficaci per gestire contenuti esclusivi, e a pagamento, verso i loro follower.
Meno network e più micro-TV, i social stanno per queste ragioni alzando l’asticella nei confronti delle piccole e medie imprese che avevano precedentemente trovato in questi canali veicoli di comunicazione facilmente accessibili, ma che oggi si trovano di fronte a richieste di investimenti pubblicitari, sforzi organizzativi e risorse creative e professionali più elevate, ma dai rendimenti non per questo altrettanto misurabili. In questa rinnovata sfida, il marketer di oggi ha però un nuovo alleato – l’Intelligenza artificiale – di cui essere consapevole per comprenderne i limiti senza per questo sottovalutarne gli impieghi.
(Articolo pubblicato sul numero di ottobre dell’Imprenditore)