Il dibattito sulla Grande Crisi e sul suo superamento ci attanaglia ormai da sette anni, all’interno di un circuito perverso che miscela consuntivi devastanti con previsioni surreali, che mette sullo stesso piano aziende che chiudono con startup che partono, che minaccia di far apparire il “cigno nero” non più come l’eccezione ma come la regola dell’economia mondiale.
Mettere ordine e configurare scenari economici di ampio respiro rappresenta, per un aziendalista come chi scrive, un’avventura ad alto rischio. Meglio partire da qualche evidenza per poi focalizzare l’attenzione sulle piccole e medie imprese e su alcuni snodi delle loro prospettive di sviluppo.
I riscontri sono quelli degli ultimi mesi: aumenta il numero di mutui erogati, si stabilizza il lavoro precario, si muove l’occupazione, migliora l’indice di fiducia di cittadini e imprese, si incrementano le vendite di beni durevoli. Sullo sfondo la manovra monetaria della Bce, gli effetti delle riforme attuate dal Governo, il basso costo del petrolio. Risultato finale: qualche decimale di Pil in più rispetto alle previsioni, il che non guasta.
In un quadro di maggiore dinamismo, le aspettative dei diversi attori dell’economia migliorano. Non sono certo le “aspettative crescenti” degli anni Sessanta o di altre fasi euforiche della storia italiana, ma qualche spiraglio di luce si intravede. E poiché l’economia vive anche, se non soprattutto, di aspettative (vedere il modello americano per credere) non possiamo che essere fiduciosi.
Ciò detto, veniamo alle imprese. Delle chiusure di Pmi si è già parlato troppo, quel che è stato è stato. Se si sposta il focus, si osserva un ampio universo di aziende che in questi anni ha messo mano al motore, ristrutturandosi, promuovendo innovazioni, sviluppando la presenza sul mercato, in particolare all’estero. Il turnaround è stato profondo, al punto che molte convenzioni sulla piccola impresa si sono sciolte come neve al sole: gli imprenditori hanno realizzato acquisizioni e alleanze per rafforzarsi all’interno della filiera, si sono fatti da parte per dare spazio a figli motivati e preparati, hanno aperto il capitale per sostenere la crescita e migliorare gli strumenti di gestione. Ma, per un universo di imprese altrettanto ampio, si avverte una sorta di “stallo strategico”.
Un indicatore dall’elevato valore segnaletico: la tensione (o, più realisticamente, la pressione) a migliorare la situazione finanziaria ha finito per frenare gli investimenti. Risultato, oltre un terzo delle piccole e medie imprese con un fatturato tra i 5 e i 50 milioni di euro di ricavi presentava nel 2013 una posizione finanziaria netta negativa. Nei fatti, alcune decine di miliardi di euro accumulati a bilancio in attesa di decidere su cosa investire.
Come si diceva, lo scenario appare più confortante, una Piccola Ripresa c’è. Per sostenerla, serve continuità di azione, su tanti tavoli e a diversi livelli, dalla politica alle istituzioni, dalle banche alle authorities, dalla rappresentanza alle famiglie. Servono anche, come sempre, gli imprenditori e la loro propensione a crescere.
In proposito, è opportuno riflettere su due questioni: le motivazioni e i contenuti progettuali.
Lasciando in disparte le molteplici caratteristiche di un imprenditore, non si può negare la rilevanza di un fattore motivazionale: l’ambizione a lasciare il segno. In poche parole, è difficile pensare ad un imprenditore che non si sacrifichi per qualcosa di importante e di sfidante. Se è vero che le sfide si sono enormemente complicate, che gli spazi si sono ridotti, che le tentazioni di gettare la spugna vanno e vengono, è pur vero che molti imprenditori posti di fronte alle difficoltà stanno recuperando energie insperate. Passato alle spalle, sguardo rivolto al futuro, si va avanti.
Sul piano dei contenuti della crescita e delle scelte di investimento, il livello del confronto si è innalzato. L’oggetto delle scelte non è più la sostituzione di un impianto obsoleto, ma l’interpretazione delle dinamiche della manifattura 4.0, lo studio di percorsi di reshoring, la valutazione delle sinergie connesse a una possibile acquisizione, l’inserimento di nuove professionalità a supporto di progetti di innovazione. Ambiente instabile, tempi di decisione ristretti, rischio imprenditoriale crescente.
Servono strumenti adeguati alle sfide. Gli imprenditori non sempre ne dispongono e in ogni caso non possono essere lasciati soli.
Prendiamo il mondo della scuola. Qualche mese fa, Galli della Loggia scriveva sul Corriere della Sera: “La scuola è ciò che dopo un paio di decenni sarà il paese: non il suo prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suo valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta”. Sulla scuola, dunque, bisogna investire. La riforma è ai nastri di partenza, la buona scuola è tutta da costruire, ma la logica dell’alternanza scuola-lavoro e il meccanismo degli stage vanno accolti con favore e sostenuti con attenzione.
Prendiamo il mondo dell’Università. Il tema è ampio e non risolvibile in poche righe. A volte le Università anticipano i bisogni formativi e disegnano gli scenari di innovazione, altre volte (verrebbe da dire sempre più spesso) sono le imprese a dettare i tempi e le università ad inseguire, ansimando nel bel mezzo di vincoli istituzionali e di carenze di risorse. L’unica strada percorribile è quella del cammino comune, nel rispetto dei reciproci ambiti di iniziativa, ma anche in base a soluzioni progettuali adeguate ai tempi (stage, placement, fund raising, spin off). Si tratta di dare concretezza ed efficacia a quella che viene denominata la “terza missione” dell’Università, ad integrazione della didattica e della ricerca tradizionalmente intese. In tale contesto va sollevata una questione di primaria importanza: l’esigenza di ripensare, se non di riavviare, la “cinghia di trasmissione” tra attività di ricerca, diffusione di conoscenza e formazione.
La ricerca accademica ha intrapreso, da qualche anno a questa parte, una strada coerente con gli obiettivi di contesto ma non sempre funzionale alla trasmissione di know how alle imprese e quindi al loro sviluppo. Qualità e rigore della ricerca, spendibilità delle pubblicazioni scientifiche nel contesto internazionale, modelli concorsuali per la carriera dei docenti non sono in discussione. Ma non lo sono nemmeno, né lo devono essere, i bisogni formativi e di sviluppo di know how delle imprese, nei loro territori di appartenenza. In poche parole: un’attività di ricerca applicata e “vicina” alle imprese è necessaria, anzi indispensabile. Lo è perché le imprese ne hanno bisogno per crescere, perché gli studiosi e i formatori ne avvertono la responsabilità, perché le conoscenze che genera indirizzano le azioni di policy e legittimano gli imprenditori e le aziende quali attori fondamentali dello sviluppo economico.
La transizione Grande Crisi – Grande Ripresa è di là da venire. Le trappole dell’economia mondiale sono tante e, come dimostrano le vicende di fine settembre, non sono solo finanziarie. Spuntano, con grande sorpresa di tutti, anche dall’inossidabile mondo dell’industria automobilistica tedesca.
Ancora una volta l’Italia non può che fare i conti con quello che ha e che sa fare. L’ennesima, buona ragione, per sostenere il modello industriale del paese.