Il modello organizzativo sul quale è tarato ancor oggi il nostro sistema normativo in materia di salute e sicurezza è quello della grande impresa manifatturiera, che offre occupazione a tempo indeterminato, in un preciso ambiente di lavoro, sotto la stretta vigilanza del sistema di prevenzione aziendale.
Prima della direttiva comunitaria 389/1991, le esigenze di tutela erano garantite dal sistema del cosiddetto command and control, caratterizzato da un sistema prescrittivo, poco orientato alla prevenzione e molto alla repressione, con una eccessiva frammentazione legislativa e mirato al rispetto meramente formale delle regole e alla conformità alle regole.
Su tutto, la pretesa di una vigilanza sui lavoratori condotta sino ai limiti della pedanteria.
A partire dalla direttiva del 1989, il legislatore comunitario ha inteso orientare i sistemi normativi nazionali verso un modello flessibile, privilegiando gli aspetti gestionali e organizzativi e la prevenzione, attraverso l’introduzione di nuovi istituti relazionali, la definizione di ruoli e responsabilità di nuovi soggetti, verso il rispetto sostanziale e non meramente formale delle misure di prevenzione e protezione.
Il nostro legislatore, con i decreti legislativi n. 626/1994 e 81/2008 ha consapevolmente scelto una via diversa rispetto a questo deciso mutamento di rotta da parte operata in sede comunitaria, cercando impropriamente di tenere insieme le due differenti logiche: oggi, tutte le regole prescrittive sono conservate nei titoli del Dlgs 81/2008 seguenti al I e nei relativi allegati, mentre le logiche organizzativo/gestionali sono contenute nel titolo I del richiamato dlgs n. 81/2008.
La coesistenza obbligata tra questi due differenti modelli (culturali, prima che legislativi) introduce la fondamentale criticità che oggi affligge il nostro sistema normativo di salute e sicurezza: l’incertezza del diritto.
Né i ripetuti richiami della Corte di giustizia, né quelli della Corte costituzionale sono finora riusciti a modificare questa impostazione culturale e legislativa che, non dando certezze (tra regole precise e rigorose, da un lato, e obiettivi di massimizzazione della tutela o minimizzazione del rischio, dall’altro), risulta diversa e incompatibile con la scelta comunitaria.
A questo si aggiunga che le regole parametrate sul modello organizzativo della grande impresa manifatturiera mal si conciliano con la dimensione, l’organizzazione e il tipo di attività svolta dalle imprese italiane di dimensioni medio-piccole e micro, chiamate a rispettare esattamente le stesse regole della grande impresa.
Da questo punto di vista, nemmeno lo “Small business act” è riuscito a indurre il legislatore a rivedere il vigente impianto normativo.
Se sul piano della chiarezza delle regole e della coerenza con le dimensioni aziendali non v’è stato alcun passo in avanti, nemmeno sul versante della reazione alla modifica strutturale dell’organizzazione del lavoro sembrano esservi spiragli di ripensamento.
Industria 4.0, smart working, digital manufacturing, coworking: sono solo alcuni profili di una industria che cambia radicalmente il modo di lavorare e produrre e la cui innovazione incide decisamente (in meglio) anche sui temi di salute e sicurezza.
L’esigenza di anticipare anche al livello normativo questa vera e propria rivoluzione impone di ridisegnare tempestivamente il modello sul quale sono articolate oggi le regole della salute e sicurezza, in una logica di forte semplificazione.
Gli elementi fortemente innovativi che si introdurranno prepotentemente e in tempi brevi nel modello tradizionale sono l’automazione di azioni e controlli e il venir meno della postazione di lavoro.
Si pensi allo smart manufacturing. Dalle analisi del Politecnico di Milano emerge che questa tecnologia abilita una forte interconnessione tra le risorse utilizzate nei processi operativi.
Nel futuro immaginato dallo smart manufacturing, gli impianti, i lavoratori, i materiali in input e i prodotti finiti saranno dotati di sensori che li identificano e ne rilevano costantemente posizione, stato e attività.
I dati raccolti saranno analizzati per migliorare la capacità produttiva, l’efficienza, la sicurezza e la continuità operativa. Gli operatori verranno facilitati nelle loro mansioni grazie a robot collaborativi e a nuove interfacce uomo-macchina,
Non possono non cambiare le regole della sicurezza sul lavoro, che dovranno essere sempre più orientate alla capacità di interazione e di controllo dei processi.
Questo cambiamento, anche per effetto di un controllo continuo e diffuso sul processo e sul prodotto reso possibile dalla informatizzazione, condurrà inevitabilmente e auspicabilmente a un incremento di qualità, ma anche di sicurezza degli operatori. Si immagina, infatti, che questa nuova modalità incrementerà il livello di sicurezza sia delle attrezzature (non consentendo l’uso di strumenti non a norma, alterati o obsoleti) che dei processi lavorativi (che saranno costantemente monitorati).
D’altro canto, il tendenziale venir meno della postazione di lavoro con lo smart working impone di ridisegnare le regole tradizionali della sicurezza. Il disegno di legge, all’esame del Parlamento, sul lavoro agile (S-2233) non coglie questi aspetti e per questo si ritiene che non aiuterà le imprese che vogliono praticare lo smart working.
L’impossibilità del datore di lavoro di controllare il lavoro al di fuori della sede aziendale, di gestire una qualsiasi attività di prevenzione (se non in termini di formazione e informazione e controllo delle dotazioni strumentali, laddove messe a disposizione del lavoratore) e la necessaria libertà di autodeterminarsi del lavoratore nel gestire il tempo di lavoro, impongono di rideterminare con precisione l’ampiezza e il contenuto degli obblighi di legge.
Così anche per quanto riguarda il connesso tema dell’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali: gli eventi che occorrono al di fuori della sfera di controllo aziendale non possono essere evidentemente imputati all’azienda, ferma restando ovviamente la vigente tutela per il lavoratore. Quindi occorre necessariamente mutualizzare il rischio sia per l’infortunio che per la malattia, come già fatto in materia di infortunio in itinere.
Restando sul piano delle proposte normative, la recente proposta di legge S-2489 è, in qualche modo, orientata a recuperare il messaggio comunitario e a valorizzare il profilo sostanziale della sicurezza in luogo di quello formale, ma è stata da subito accolta da un generalizzato giudizio negativo. L’intenzione dei proponenti sembra, invece, cogliere effettivamente l’esigenza di elevare in modo sostanziale il livello di sicurezza tornando alle direttive comunitarie e ai principi essenziali, ancorando gli obblighi al rispetto dello stato dell’arte codificato nelle norme tecniche, valorizzando obblighi e responsabilità del datore di lavoro nell’organizzazione dell’attività d’impresa e del sistema della sicurezza.
Restare ancorati al dato normativo esistente significa non cogliere il forte messaggio proveniente dall’Europa e dettato chiaramente dalle ormai risalenti direttive del 1989 ma, soprattutto, vuol dire incidere negativamente sia sulla produttività che sulla competitività del nostro sistema produttivo, senza peraltro alcun beneficio reale per la sicurezza sul lavoro.