
Qual è il luogo ideale per fondare una startup in Italia? Massimiliano Ceaglio, responsabile tecnico I3P – Incubatore imprese innovative Politecnico di Torino, non ha dubbi: “Puntando il compasso su Torino e tracciando un cerchio del raggio di ottanta-cento chilometri, ci troviamo all’interno di un ecosistema imprenditoriale molto ricco, nel quale la startup che vuole cominciare a produrre o andare sul mercato, qui riesce a farlo a costi inferiori e in minor tempo”. Il segreto sta nell’incontro fra domanda e offerta, ovvero da un lato c’è la startup che ha bisogno di realizzare un prototipo o una pre-serie per i dimostratori, dall’altro c’è la piccola o media impresa che può offrire il servizio. L’incubatore promuove e facilita questo abbinamento. L’obiettivo di I3P, infatti, è aiutare gli imprenditori a far partire startup tecnologiche, il che non significa solo inventare nuove tecnologie, ma anche creare prodotti e servizi innovativi che facciano uso di tecnologia. Nel caso del territorio torinese, le startup possono attingere da un bacino imprenditoriale particolarmente ricco di specializzazioni in settori differenti.
Come si spiega questa peculiarità?
Ci sono innanzi tutto ragioni storiche. Parliamo, infatti, di un sistema manifatturiero che si è sviluppato attorno a grandi aziende come la Fiat per il settore automotive o la Alenia per l’aerospazio. Nella zona di Ivrea, invece, operano le imprese che nacquero come indotto della Olivetti quando era all’apice del suo successo, mentre fra Alessandria e Asti troviamo realtà attive nel settore della plastica, sorte grazie alla presenza della Michelin. Gran parte di quelle che operavano come mono-clienti oggi non esiste più. Ha invece resistito e oggi riesce a crescere chi, allo stesso tempo, ha mantenuto la propria specializzazione e si è internazionalizzato. Si tratta di Pmi sane, che lavorano bene ma la cui capacità produttiva spesso non è ancora satura. Il taglio di fatturato – da due a dieci milioni di euro – non consente loro di effettuare grossi investimenti sugli impianti ed è qui che possono entrare in gioco le startup del nostro incubatore.
In che modo?
Possono farlo su due fronti differenti. Da una parte innestando l’innovazione di cui sono portatrici su impianti produttivi di due generazioni addietro che, per i motivi sopracitati, al momento non possono essere sostituiti. Il nostro sistema produttivo, infatti, oggi dovrebbe fare un salto generazionale – e non un semplice passaggio – per recepire i cambiamenti legati all’introduzione del 4.0 nella manifattura tradizionale. Mutamenti che paesi come la Germania o il Giappone hanno acquisito come normale processo di transizione grazie alle politiche lungimiranti degli anni passati.
Tornando alle startup, le opportunità più promettenti che intravedo dipendono dal fatto che queste imprese realizzano un’innovazione ritagliata sulle esigenze dei potenziali clienti, ovvero le Pmi del territorio. Il fatto che gli interlocutori siano Pmi consente, inoltre, di avere un rapporto diretto con gli amministratori delegati, che spesso sono gli stessi fondatori dell’impresa. Dall’altra parte, però, queste stesse Pmi sono una fonte importantissima per le startup in quanto costituiscono il loro principale partner per la prototipazione e la produzione delle prime campionature, consentendo quindi alle startup di velocizzare il loro “go to market” contenendo gli investimenti necessari per avviare la fabbrica. In sostanza qualunque startup, soprattutto se manifatturiera, può già trovare una fabbrica distribuita sul territorio e pronta a supportarla fin dalle sue prime fasi. In sostanza si tratta di un ecosistema virtuoso dove il concetto di domanda-offerta è bidirezionale tra startup e Pmi.
Questa combinazione di fattori è presente solo in Piemonte?
Un altro sistema manifatturiero cresciuto attorno all’industria pesante o comunque molto tecnologico lo troviamo, ad esempio, lungo la via Emilia. Parlo del medicale e del settore delle auto da corsa. Tuttavia si tratta di aziende geograficamente distribuite come micro-cluster, che non si sono mai raccolte attorno a un incubatore. La vicinanza fisica in questo tipo di attività conta molto. La specificità di quest’area del Piemonte è unica nel suo genere.
Come nasce in concreto una startup?
La fase iniziale è la pre-incubazione, ovvero una fase che può iniziare con una chiacchierata con l’aspirante imprenditore che ci racconta la propria idea. Di incontri, ad esempio, nello scorso anno ne abbiamo fatti circa 600. La maggior parte dei candidati poi non prosegue e i motivi possono essere tanti: l’idea si rivela poco innovativa; ci sono altri progetti in corso molto simili; manca sufficiente motivazione nel voler fare l’imprenditore.
Con altri, invece, si va avanti e si avvia un percorso di affiancamento gratuito volto a mettere a fuoco il progetto cercando potenziali investitori. Questi sono circa 200 all’anno. È una fase di studio molto importante, nella quale si capisce se l’intuizione è corretta. A quel punto l’incubatore propone alla startup, che nel frattempo è stata costituita, di sottoporsi a un comitato di valutazione. L’imprenditore in piena libertà di decisione potrà presentare un business plan e, una volta entrato, dovrà pagare una fee per i servizi di incubazione, che consistono in consulenza e, se necessario per la startup, spazi. Non c’è un obbligo a fare entrambi gli step. Il comitato di valutazione è molto selettivo e in media solo una ventina di aziende all’anno riesce ad accedere ai servizi di incubazione.
Per i progetti digitali – sviluppo di un’App o di un prodotto digitale, lancio, fase di test – lavorare fianco a fianco con altre startup è vitale e le tempistiche con le quali si riesce a validare l’idea sono fondamentali. E infatti per loro c’è un percorso apposito chiamato “Treatabit”.
Chi sono i vostri startupper?
Il panorama è molto vario. C’è il ragazzo che probabilmente non terminerà gli studi, o lo farà molto tardi, perché ormai ha una vera e propria attività e clienti, dipendenti e investitori a cui render conto. Ma c’è anche l’imprenditore che lancia una terza startup con l’obiettivo poi di venderla e sceglie l’incubatore per velocizzare il processo. Spesso, poi, sono imprenditori che costituiscono degli spin off per sviluppare progetti e servizi legati all’azienda. Non riescono a farlo in house perché le procedure interne sono troppo codificate e allora scelgono di affidare il compito a un paio di dipendenti, che diventano gli imprenditori e lavoreranno nell’incubatore in completa autonomia. Tipicamente alla fine accade che la startup va bene, il progetto si rivela core e l’azienda madre riacquista la startup.
Negli Stati Uniti la Cisco Systems funziona esattamente in questo modo: non ha un laboratorio di sviluppo e ricerca interno, eppure nel campo delle telecomunicazioni è l’azienda che lancia sul mercato il maggiore numero di prodotti innovativi ogni anno; lo fa acquistando startup dai propri ex dipendenti.
Quante risorse ad oggi sono state investite in equity nelle startup dell’incubatore?
Innanzi tutto distinguiamo gli investimenti in due tipi: seed equity, ovvero il taglio da 50 a 300mila euro, ed early stage, vicino al milione di euro. Nel primo caso mediamente raccogliamo tre milioni di euro all’anno, nel secondo circa sette.
Dal 2007, complessivamente, le nostre startup hanno raccolto circa 45 milioni di euro, ma l’aspetto più interessante è che oltre la metà di queste risorse sono state raccolte negli ultimi due anni e mezzo. Lo strumento del credito d’imposta sicuramente ha smosso il mercato, ma ha contribuito anche la nostra capacità di presentare un “track record” di qualità agli investitori derivante soprattutto dalla nostra competenza di saper selezionare le migliori startup tra tutte quelle che richiedono i nostri servizi. Insomma, abbiamo cambiato decisamente marcia e più in alto riusciamo ad arrivare, migliore sarà la prospettiva.