
Tecnico o manager? La questione è dibattuta ormai da tempo, dai primi anni 70’, quando la professione del Project manager ha iniziato a delinearsi con una sua piena autonomia. Una domanda assolutamente legittima che in molti oggi si pongono: studenti, giovani all’inizio di una carriera, professionisti senior o semplicemente attenti osservatori delle dinamiche del mondo dell’industria.

MATTEO MANCINI
Possiamo dare due risposte a questa domanda, una più semplice e allineata con la teoria classica del Project management e una più articolata e forse più aderente ai tempi che corrono. La prima risposta parte dalla definizione stessa di Project manager, chiamato in gergo anche semplicemente Pm. Ebbene, secondo la più classica delle definizioni, il Pm ha la responsabilità di guidare un progetto assegnatogli da uno sponsor rispettando lo scopo dei lavori, i costi e i tempi associati e assumendo un ruolo centrale all’interno di questo triangolo magico, “scopo-tempi-costi” per l’appunto.
Partendo da qui, la risposta al nostro quesito è immediata: il Pm non può che essere in prima istanza un manager. Egli infatti non può limitare la propria competenza alla ottima conoscenza del contesto tecnico in cui il progetto viene realizzato ma deve necessariamente dotarsi di altre armi: strumenti di pianificazione, di budgeting, di gestione della qualità e del rischio. Nonché eccellenti doti di comunicazione e di conoscenza dei contratti che definiscono le regole del gioco necessarie per il successo dell’impresa. Nulla vieta che un ottimo tecnico, dismessi i suoi vecchi abiti, possa trasformarsi in un ottimo Pm. Parimenti, un manager che si dedichi alla gestione di un progetto, non può ignorarne le caratteristiche tecniche, pena il rischio di non essere una utile interfaccia per le funzioni che lavorano per la sua realizzazione.
La seconda risposta si basa su una valutazione del contesto in cui il progetto è realizzato e sul ruolo sempre più decisivo che la doti di leadership rivestono in un mondo sempre più interconnesso e veloce.
In un’analisi presentata da David J. Snowden e Mary E. Boone su “Harvard Business Review” sul decision making (ovvero il pane quotidiano di un Pm) viene evidenziata in maniera molto efficace la varietà di situazioni che possono presentarsi ad un manager – e quindi a un Pm – passando da ambiti noti a contesti fluidi e con un certo grado di imprevedibilità.
Se un progetto realizzato in un ambito semplice e con un certo grado di ripetibilità può favorire un focus esclusivo su aspetti tecnico-gestionali, un progetto complesso richiederà al Pm di combinare capacità gestionali in tutte le aree di conoscenza del Project management con fondamentali doti umane e di leadership.
Come leader, il Pm sarà in grado di influenzare, guidare e motivare il gruppo di progetto attraverso le incertezze del cammino e il gruppo a sua volta riconoscerà nel leader una guida fidata verso i propri obiettivi. Creare un rapporto di fiducia tra Pm e team di progetto è quindi elemento essenziale per il successo e il Project manager potrà ottenerlo completando le proprie doti gestionali con la capacità di essere leader.