Possiamo confessarle che siamo un po’ emozionati? Un presidente della “nostra” Piccola Industria che diventa presidente di Confindustria.
È una bella emozione, vero, ed è anche la mia. E credo sia emersa tutta il giorno della nostra Assemblea pubblica: vedere mio padre seduto là davanti a me, insieme al Presidente della Repubblica, ai Ministri di governo, all’imprenditoria italiana e sapere quanta strada ha fatto, quanti sacrifici, quanto coraggio, è stata una bella prova.
Superata direi: che effetto le fa rappresentare gli imprenditori italiani?
Provo un grande orgoglio. In questo primo mese ho partecipato a molte Assemblee delle nostre associazioni sia territoriali sia di categoria, ho visto tanta Italia, conosciuto imprenditori e realtà anche molto diverse tra loro. E ogni volta torno a casa un po’ più ottimista, perché mi rendo sempre più conto che se siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania – e sfido chiunque a farlo con tutte le zavorre che frenano ancora le imprese italiane – lo si deve proprio al nostro tessuto produttivo. Imprese e imprenditori di prim’ordine, che meritano grande rispetto e che io sono orgoglioso di rappresentare.
E di scuotere. Nel suo intervento programmatico in Assemblea è partito subito da quello che possono fare gli imprenditori.
Ho detto più volte che non faremo liste della spesa. Credo che essere classe dirigente significhi passare dalla semplice constatazione della realtà, a una visione di futuro. Dalle critiche, sacrosante, alle proposte, altrettanto importanti. Dove vogliamo che questo Paese sia tra dieci, vent’anni? La Germania di Schröder si è posta questa domanda anni fa e adesso guardi dov’è. Noi, che vogliamo fare?
Lei che idea ha?
Dobbiamo agire dentro e fuori i cancelli delle fabbriche. Dentro, significa convincersi della necessità di crescere, dal lato dimensionale e culturale. Le piccole aziende devono diventare medie, le medie grandi, le grandi grandissime. Il che significa anche innovare i modelli di finanziamento e di governance, raccogliendo più capitale di rischio e meno di debito. Le imprese devono sempre più utilizzare strumenti finanziari alternativi e diventare meno “bancocentriche”.
E le banche, che possono fare?
Tornare dentro le imprese a parlare con noi imprenditori. Devono uscire dai loro uffici e > venire nei nostri capannoni per vedere quello che produciamo, come lo produciamo e con quali persone. In questi anni abbiamo fatto una grande campagna insieme alle banche per migliorare il rapporto con le imprese, per far sì che diventino importanti come merito di credito non solo i numeri di bilancio, ma anche gli asset intangibili: i rapporti con i clienti e i fornitori, il management, i brevetti, i marchi, le sue relazioni con il territorio, i contratti di secondo livello che rilanciano la produttività.
A proposito di produttività, lei ne fatto una priorità assoluta.
Non più solo nostra. Ne abbiamo parlato in Assemblea a maggio e adesso è diventata una priorità anche dell’agenda di governo. È la variabile decisiva per le imprese e per il Paese, perché è una delle cause della lenta crescita italiana. Bastano due numeri: dal 2000 a oggi la produttività nell’intera economia è salita dell’1% in Italia, contro il 17% dei nostri maggiori partner europei. Distacchi che nel manifatturiero aumentano: +17% da noi, +33-34% in Germania e Spagna, +43% nel Regno Unito e +50% in Francia. Il nodo da sciogliere è qui. Dobbiamo mettere in moto un circolo virtuoso. Più produttività per dare salari più alti, far crescere l’occupazione, la domanda interna, per dare più competitività alle imprese e al sistema Paese. Insomma, per alzare l’asticella del nostro Pil. Con uno scambio.
Se il Pil cresce, parte di questa crescita va restituita riducendo le tasse su imprese e lavoro. Per parte nostra, stiamo lavorando a un insieme di proposte di politica economica che raccoglieremo in un documento da proporre al Governo entro settembre
Dopo lo shock Brexit, che Europa serve?
La stessa che serviva senza Brexit. Solo che adesso questa esigenza subisce un’accelerazione, perché l’uscita della Gran Bretagna dall’euro, porta la questione crescita drammaticamente in primo piano. Su questo terreno si gioca il futuro dell’Europa: è più che mai vitale comprendere che è arrivato il momento di scambiare le sovranità nazionali, l’austerità, con la crescita comune. Altrimenti non andiamo da nessuna parte.
Conseguenze sull’economia?
Non dobbiamo confondere l’ansietà e le speculazioni in Borsa con l’economia reale. Anche perché c’è una timida inversione di tendenza, che ancora non è una vera ripresa. Non dobbiamo arretrare di un millimetro sulla strada delle riforme. A maggior ragione ora, con la Brexit e le fluttuazioni dei mercati, che potrebbero accentuare un rallentamento dell’economia mondiale già in atto.
C’è un’altra questione aperta: i contratti.
Le relazioni industriali sono un’altra delle partite fondamentali per la crescita. Una partita su cui è necessario l’impegno di tutte le parti in causa perché le relazioni industriali devono diventare rapporti tra soggetti responsabili che sanno di condividere gli obiettivi di sviluppo aziendale. Per questo avevamo chiesto ai sindacati di riscrivere insieme le regole della contrattazione. Un processo che purtroppo, abbiamo dovuto prenderne atto, non è stato possibile portare avanti. Ora che sono aperti rinnovi importanti, ne cito uno simbolico, quello dei metalmeccanici, stiamo “alla finestra”, lasciando ai singoli settori il compito di provare a inserire qualche elemento di innovazione. Spero che dopo, a contratti chiusi, si possa riprendere il confronto, avendo come bussola lo scambio “salario/produttività”, e soprattutto che si riesca noi a scrivere le regole invece che lasciarlo fare ad altri.
Che potrebbe fare il Governo se ci riuscite?
Dovrebbe sostenere lo scambio salario-produttività con una politica di detassazione e decontribuzione strutturale. Senza tetti di salario e di premio, in modo da incentivare i lavoratori e le imprese più virtuosi. E convincere così per “convenienza” le aziende che non si convincono per via “culturale”.
Nel corso del Consiglio generale di giugno avete detto sì al referendum di ottobre sulla riforma costituzionale. Perché?
Perché la governabilità è un elemento dirimente per continuare con le riforme, guardi quello che è successo, per due volte, in Spagna, alle elezioni politiche. Sono anni che Confindustria sottolinea l’esigenza di modificare la Costituzione per modernizzare le istituzioni, migliorare l’efficienza della macchina pubblica e l’efficacia dei processi decisionali. Quella del Consiglio Generale è stata una scelta a favore della competitività e del valore della responsabilità. La riforma costituzionale guarda infatti all’interesse generale del Paese nel medio-lungo periodo e va sostenuta nel merito. È senz’altro migliorabile, ma è una pre-condizione indispensabile per realizzare quelle riforme economiche necessarie al rilancio della crescita, su cui Confindustria chiede un impegno forte da parte del Governo. È questo lo spirito con cui, all’unanimità, il Consiglio Generale ha detto sì. Come ho detto all’inizio, quello che serve è visione, non constatazione. E la visione ci dice, sono valutazioni del nostro Centro Studi, che una vittoria del no al referendum rischierebbe di portare l’economia italiana di nuovo in recessione e il Paese nel caos politico. Davvero vogliamo questo? Io credo di no.
Intervista al presidente di Confindustria Vincenzo Boccia