
Marcel Proust diceva che “citando un verso isolato, se ne moltiplica la forza attrattiva”. Con il giusto mix tra enfasi e provocazione, prendo a prestito Garibaldi per affermare che “qui si fa politica industriale o si muore!”.
Non entro nel merito del “bisogno di policies” che la pandemia ha drammaticamente fatto emergere. È sotto gli occhi di tutti, al punto che il “Recovery fund”, la grande mamma di tutte le speranze e di tutte le battaglie, è entrato di diritto nel lessico quotidiano. Colgo invece l’occasione per ricordare quelli che rappresentano i pilastri di un intervento a sostegno di un “sistema di imprese”, sia esso rappresentato da un settore, una filiera, un cluster. Filo rosso old style, all’insegna del “chi fa che cosa”.
Partiamo dal “che cosa”. Il presupposto è che gli interventi siano concepiti e formulati all’interno di una visione di sviluppo unitaria e orientata al medio periodo. A mo’ di vademecum: lente sul tal settore, identificazione delle condizioni per rafforzarne la competitività a cinque anni, definizione della cassetta degli attrezzi (sostegno alla crescita, alla capitalizzazione, alla produttività, all’innovazione, allo sviluppo di competenze e così via) con cui intervenire. Ma anche, se non soprattutto: definizione rigorosa degli obiettivi, monitoraggio dei risultati in itinere e correzioni di rotta a stretto giro.
Corollario numero uno: devono essere interventi selettivi, che tengono in considerazione la rilevanza dell’ambito economico in oggetto, i contributi offerti dagli attori a vario titolo coinvolti, le risorse attivabili e i benefici attesi. Detto in altri termini, tutto non si può fare, pena il farlo male, sperperando tempo e quattrini. Una “buona” politica industriale è inevitabilmente espressione del trade-off management: investo su quel fronte perché mi attendo un ritorno sul piano dello sviluppo economico e sociale. Quella meno buona, quella “a pioggia” per intenderci, è politica e basta.
Corollario numero due: devono essere interventi pragmatici, che tirano dritto verso la semplicità, la flessibilità, la tempestività. Parole utilizzate nel 1997, in un libro sulle politiche di facilitazione per la crescita delle piccole e medie imprese a cui ho contribuito in prima persona (Pmi e politiche di facilitazione, a cura di G. Brunetti, G. Mussati e G. Corbetta, Egea, Milano, ndr)). Alle soglie del 25° anniversario, qualsiasi valutazione su come e quanto se ne sia fatto tesoro avrebbe un comune denominatore: si stava meglio quando si stava peggio.
Veniamo al “chi”. Si apre un mondo. Vale la pena sottolineare i compiti fondamentali dello Stato e dei suoi apparati: assicurare la stabilità del quadro macroeconomico; creare le condizioni per la competitività delle imprese (migliorando efficienza e qualità dei fattori produttivi primari, a cominciare dal mercato del lavoro, dalle infrastrutture e dall’accesso alle materie prime); sostenere la ricerca e lo sviluppo di competenze; fare sì che i meccanismi e gli incentivi che disciplinano la concorrenza siano orientati alla crescita della produttività.
C’è poi da mettere a tema il ruolo della rappresentanza, sempre più sollecitata a innovare la proposta di valore indirizzata ai propri associati e, di riflesso, il modus operandi che ha caratterizzato cicli economici ben diversi da quelli degli ultimi anni. E c’è anche da disquisire di sistema creditizio, di scuola e di università, di ordini professionali, di “modernizzazione” degli attori che determinano l’ecosistema in cui si muovono le imprese.
In sintesi: sul “date all’impresa quel che è dell’impresa, allo Stato quel che è dello Stato, all’ecosistema quel che è dell’ecosistema” si vanno delineando scenari epocali, mettiamolo in conto. È una questione culturale, da affrontare in un Paese che è abituato a percorrere le vie brevi, a formulare visioni corte, a tutelare interessi di parte. Volenti o nolenti, bisognerà affrontarla.
Per concludere, un esempio applicativo: il “Percorso per il rilancio della Filiera Italiana del Tessile & Abbigliamento”, messo a punto da Sistema Moda Italia con il contributo di Liuc Business School e di Long Term Partners. Fortemente segnata dalla pandemia, la filiera è pronta a ripartire e ha formulato un progetto visionario e di ampio respiro. Lo ha fatto sollecitando interventi finalizzati alla crescita economica (dunque né compensativi, né assistenziali) e azionando leve coerenti con l’evoluzione del manifatturiero: sostenibilità ed economia circolare, incremento della produttività dei fattori, sostegno all’innovazione. Contenuti ma anche metodo, a cominciare dalla sistematica convergenza tra scenari competitivi e simulazioni quantitative, tra dinamiche di mercato e indicatori di performance.
Progettualità di sistema, “figlia dei tempi”. Ma anche possibile benchmark cui ispirarsi per azioni di policy “figlie dei tempi”. Ne abbiamo urgente bisogno.